Dalla giornata del 1° maggio, dedicata al lavoro, alla promozione del suo diritto per chi non lo ha ed al miglioramento delle condizioni di quello esistente, dobbiamo certo riprendere con decisione il discorso sulla necessità che ogni essere umano abbia un’attività in grado di permettergli di esprimere in essa la propria personalità e di ricavarne il necessario per vivere.
Trovare le modalità per rendere finalmente reale una tale esigenza è possibile e dunque dev’essere per tutti un dovere politico perché alle persone non dobbiamo dare un reddito ma un lavoro di cittadinanza come diritto reale.
La responsabilità sociale deve vederci impegnati in un’equa retribuzione e redistribuzione del lavoro.
Vorrei tuttavia allargare un po’ tale schematica considerazione con delle riflessioni estese al sistema di vita che ci siamo dati e al modo di renderlo più giusto ed umano.
Se la cultura è capacità di pensiero, memoria, riflessione, informazione, relazione, immaginazione, creazione di concetti, principi, valori e modelli comportamentali funzionali ad un vivere positivo per tutti, ci sono momenti in cui, osservando i paradigmi della società, dobbiamo pure chiederci quale sia il livello culturale dell’epoca in cui viviamo.
Indubbiamente ogni momento storico ha sempre avuto persone votate al bene comune ed altre prese da egoismi difficilmente comprensibili.
Probabilmente anche il nostro tempo non fa eccezione, ma gli episodi terribili di violenza che lo attraversano a volte riescono a toglierti il sonno.
La produzione indiscriminata di armi, l’invito all’aggressività presente in ogni forma di comunicazione scritta sul web, nelle immagini o nei filmati dei media, ma anche semplicemente nell’uso del linguaggio sono allo stesso tempo la causa e lo specchio di una società che probabilmente non sa più vedere il discrimine tra il bene ed il male.
Il terrorismo, il genocidio, le innumerevoli guerre locali diffuse su tutto il pianeta, la violenza di genere, perfino l’omicidio praticato per futili motivi, i respingimenti di quanti fuggono da persecuzioni, bombardamenti, carestia, guerra, miseria, discriminazione e disuguaglianza estrema capace di generare morte per fame sono fenomeni che dovrebbero interrogare le coscienze.
Esistono problemi cui non possiamo chiudere il nostro cuore facendo finta d’ignorarli e per i quali invece non possiamo smettere di cercare soluzioni umane e ragionevoli.
Se le questioni irrisolte sono così numerose e generano conflitti e brutalità, probabilmente il sistema culturale, economico, sociale e politico cui ci ispiriamo non riesce a gestire una convivenza accettabile ed abbiamo pertanto il dovere d’immaginare un’organizzazione diversa del mondo.
Stiamo distruggendo l’atmosfera, l’ambiente, le relazioni umane ispirati non al valore di ogni cosa presente ed utile sulla Terra, ma piegati piuttosto agli idoli del denaro accumulato, della ricchezza ostentata e di un labile edonismo individualistico.
Così facciamo ricerca scientifica per inventare armi sempre più distruttive, per incrementare la produzione di beni superflui e indotti piuttosto che pensare a sviluppare un’agricoltura biologica di qualità capace di garantire un’esistenza dignitosa ad ogni essere umano.
Ha perfettamente ragione Gino Strada quando afferma che, se un diritto non è garantito a tutti ed a ciascuno, diventa un privilegio.
La libertà, il benessere, la democrazia pertanto devono realizzarsi come valori fondanti dell’intera umanità.
Sarà anche vero che, se guardiamo ai processi macro storici e ai dati relativi all’intera popolazione mondiale, la nostra epoca possa apparire tra quelle più pacifiche dell’umanità; tuttavia le guerre e le discriminazioni nel mondo continuano a generare odio, nuova miseria ed ancora morti, tanti morti.
Stiamo contando milioni di decessi per Covid relativi a persone che, come in questi giorni soprattutto in India, in Brasile ma anche in alcune fasce della popolazione del mondo industrializzato, sicuramente non hanno avuto cure adeguate mentre c’è chi ha beneficiato di strutture sanitarie in grado di salvargli la vita.
Ci sono insomma soggetti per i quali la normale sopravvivenza non è messa mai in discussione, mentre lo è per gli anziani, i fragili, i poveri, i tanti fuggiaschi bloccati sulla rotta balcanica o per i migranti che continuano ormai in migliaia a morire naufraghi nel Mediterraneo.
Di tutti questi drammi nell’informazione persistono, se va bene, poco più che i numeri di quanti perdono la vita, come se i problemi che generano queste tragedie non esistessero e non ci riguardassero.
I singoli Stati e le organizzazioni internazionali cercano surrogati di soluzione talora indecenti e disumani a questioni che dovrebbero essere affrontate almeno con uno spirito minimo di solidarietà e condivisione che purtroppo non riusciamo a dimostrare neppure di fronte alla morte che cerchiamo in ogni modo di rimuovere per noi stessi, ma di cui non ci curiamo più di tanto quando rischia di colpire gli altri.
Non sta facendo progressi neppure quella che chiamiamo beneficenza, frutto spesso di finti moralismi utili per acquietare la coscienza mentre non dovrebbe essere niente altro che abbandono del superfluo in favore di chi ha bisogno.
Certo non cambieremo questa società se nell’informazione gli eventi di egoismo o violenza prevarranno sugli esempi di bontà ed altruismo.
Si tratta di uno scenario rispetto al quale il silenzio e l’indifferenza sociale e politica non possono farci dormire sonni tranquilli.
Chi allora avverte l’urgenza di un cambiamento rispetto al nostro modo di vivere e di organizzare il mondo ha necessità di dire parole davvero chiare sulle forme della struttura produttiva, sull’eliminazione delle spese per gli armamenti, su un’equa redistribuzione del reddito, sulla garanzia universale dei diritti alla vita ed alla salute, sul sostegno solidale a chi vive in difficoltà, sulla costruzione dell’idea di condivisione come principio della giustizia sociale.
Non riusciamo a fare neppure, come diceva don Lorenzo Milani, “parti uguali tra disuguali”, che già non sarebbe equo, ma abbiamo costruito proprio una società della disuguaglianza dalla quale, uscendo dall’atomismo disgregante e marginalizzante, dovremmo allontanarci e mettere nelle mani di persone giuste e responsabili il futuro rispettoso dei beni della Terra trovando il modo per garantire a tutti quantomeno i diritti primari.
Viviamo dentro le logiche neoliberiste del profitto e dei consumi esorbitanti affannandoci con qualche difficoltà a prevedere se la ricerca, la scienza e la tecnologia riusciranno a garantire all’economia moderna forme sempre più innovative di energia e nuovi materiali.
Di sicuro ad opporsi non tanto allo sviluppo quanto al consumismo esasperato sono rimasti Serge Latouche ed alcuni altri teorici della decrescita come riduzione controllata di produzione ed utilizzo di beni e naturalmente papa Francesco con i suoi richiami alla sobrietà ed alla solidarietà.
Credo sia in gran parte nel vero lo storico Yuval Noah Harari il quale nel suo saggio Sapiens Da animali a dèi scrive “La storia dell’etica è una storia triste di splendidi ideali a cui nessuno riesce a conformarsi. La maggioranza dei cristiani non ha imitato Cristo, la maggioranza dei buddisti non ha seguito l’esempio di Buddha e la maggioranza dei confuciani avrebbe fatto venire uno scatto di nervi a Confucio.
Per contrasto, quasi tutti seguono con successo l’ideale capitalistico-consumistico. La nuova etica promette il paradiso a condizione che i ricchi restino avidi … e che le masse diano libero sfogo alle loro voglie e passioni e comprino sempre di più. Questa è la prima religione nella storia i cui seguaci fanno effettivamente ciò che viene chiesto loro di fare. Ma come facciamo a sapere che in cambio avremo davvero il paradiso?”
A quest’ultima domanda retorica Harari risponde intelligentemente con un’ironia molto sarcastica ed amara “Be’, l’abbiamo sentito alla televisione.”
Sarà sicuramente bello il giorno in cui potremo fare nostre le parole profetiche della scrittrice ed attivista politica indiana Arundhati Roy “Un altro mondo, non solo è possibile, ma sta arrivando. Nelle giornate calme lo sento respirare”.
(Umberto Berardo)