L’intelligenza artificiale è ormai il tema del giorno. Non c’è convegno, articolo, sondaggio, incontro in cui questa rivoluzione non irrompa nel dibattito con tutto il suo carico di stravolgimento tecnologico. Ci si domanda, come del resto di fronte a tutte le novità dirompenti, se sia un’opportunità o un rischio. Di certo è una sfida che investe principalmente il mondo del lavoro, con l’accelerata crescita del tasso di distruzione e creazione di posti di lavoro.
Secondo uno studio di Accenture, nei prossimi dieci anni ben cinque milioni di lavoratori saranno a rischio di completa automazione, mentre altri nove milioni necessiteranno di nuove competenze proprio a causa delle trasformazioni conseguenti all’intelligenza artificiale. Nel contempo, nasceranno 2,5 milioni di nuovi posti di lavoro. Insomma, il quadro occupazionale cambierà nel profondo. E la preoccupazione per la “sostituzione” delle tecnologie digitali rispetto al lavoro umano – con rivolti negativi oltre per l’occupazione anche per la previdenza – primeggia tra le motivazioni allarmistiche.
Tutto ciò avverrà, nel nostro Paese, all’interno di un’ulteriore metamorfosi imposta dalla demografia: secondo l’Istat l’Italia perderà oltre cinque milioni di residenti nei prossimi 25 anni, nonostante l’apporto dei cittadini immigrati.
Se si attenueranno, quindi, il ruolo e il peso della componente umana nella vita quotidiana, lasciando ulteriore spazio agli algoritmi e all’applicazione dell’Ia (un carico di innovazione che in teoria dovrebbe migliorare le nostre esistenze, infatti la maggior parte delle indagini di questi ultimi tempi conferma l’atteggiamento positivo delle persone rispetto alle nuove tecnologie e Goldman Sachs prevede che potrebbe contribuire ad accrescere del 7% del Pil globale), è altrettanto vero che l’implementazione dell’intelligenza artificiale comporti la necessità di adeguare e accelerare i processi di formazione e di apprendimento per rispondere alla nuova realtà lavorativa e, di conseguenza, sociale, e per assicurare competitività all’intero sistema Paese.
Nuovi percorsi di formazione professionale, in particolare di formazione continua e di attività da remoto, costituiscono la migliore risposta al decadimento del senso stesso del lavoro. Paradossalmente una mano ce l’ha tesa la pandemia, che ha incrementato l’uso dei dispositivi digitali anche per il trasferimento delle competenze relegando secondariamente lo spazio alla formazione tradizionale in aula. Le soluzioni ibride, sia in apprendimento formale sia informale, sono le soluzioni che ormai vanno per la maggiore: scelte cross modali che completano il sapere teorico con quello pratico utilizzando sia spazi fisici sia, con sempre maggiore frequenza, soluzioni digitali.
Grazie all’opportunità offerta dalle nuove tecnologie occorre quindi superare le radicate logiche di una formazione incarnata dalla mera trasmissione di competenze tecniche finalizzate ad accrescere le rendite economiche dell’azienda rispetto alla funzione di dignità, crescita e completamento dell’essere umano, di servizio e apporto al bene comune, di solidarietà, di giustizia sociale. Le nuove tecnologie vanno orientate ad un cambiamento principalmente culturale.
Altra funzione centrale è rivestita dalle politiche attive del lavoro che andrebbero finalizzate principalmente verso la specializzazione in un mercato del lavoro sempre più dinamico e trasversale, combattendo in particolare il mismatch tra domanda ed offerta di lavoro, in cui la tecnologia – insieme alla conoscenza delle lingue – riveste un ruolo fondamentale. In un futuro sempre più vicino diventerà esiguo il numero dei lavoratori (si pensi al settore sanitario) rispetto ai posti di lavoro.
Da non dimenticare il ruolo della formazione collegata all’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, la generazione più recettiva riguardo all’innovazione. Ricollocare un cinquantenne, età dominante nell’attuale panorama del lavoro italiano, è certamente più difficile rispetto all’inserimento di un giovane ben formato: tuttavia il quadro demografico ci penalizza in tal senso ed il ricorso al bacino dell’immigrazione appare ormai una strada obbligata. Il modello tedesco di formazione professionale per i richiedenti asilo andrebbe valutato con favore.
La massima attenzione su questi tre fronti – formazione continua, politiche attive, inserimento dei giovani – è ripagata dalla professionalizzazione dell’intero sistema Paese.
C’è inoltre da tenere in considerazione che di fronte all’intelligenza artificiale si sta superando l’atteggiamento di semplice curiosità verso il rivoluzionario fenomeno e ci si lascia guidare sempre più dalla consapevolezza che occorra accrescere competenze e professionalità per affrontare la svolta come un’opportunità e non come un fardello.
Le nuove tecnologie, pur evitando facili trionfalismi (non sono pochi i rovesci della medaglia, dalla cybersicurezza alla tutela della privacy fino alla completa affidabilità tecnica), determinano indubbiamente un’ottimizzazione dei tempi e dell’organizzazione del lavoro, in particolare dell’operare in team o nel problem solving, una migliore conciliazione tra lavoro e tempo libero, una maggiore disponibilità dell’assistenza (si pensi a ChatGPT).
Un pericolo associato all’intelligenza artificiale, semmai, è rappresentato dalla possibile espansione del precariato, dello sfruttamento occupazionale, della delocalizzazione, degli incidenti su un lavoro povero di garanzie. Come antidoto a questi rischi c’è la necessità di applicare con rigore o di riscrivere le regole, adeguandole ai cambiamenti in atto. E di premiare gli esempi aziendali più virtuosi, le buone pratiche, la propensione alla sostenibilità, all’etica, alla parità di genere. È in trasformazione, in tal senso, anche il ruolo degli organismi di mediazione, associazioni datoriali e sindacati dei lavoratori compresi. Ne siamo coscienti da tempo.
(Domenico Mamone)