
Un tempo di analfabetismo da assenza di scolarizzazione si parlava per riferirsi a chi non era in grado di avere le capacità minime di lettura, scrittura e far di conto.
Alla nascita del Regno d’Italia il fenomeno aveva raggiunto la percentuale del 78% anche se nel
Mezzogiorno si arrivava in alcune zone al 92%.
Con lo sviluppo dell’obbligo scolastico per tali abilità oggi la situazione può definirsi soddisfacente anche se persiste quello che noi chiamiamo analfabetismo di ritorno.
I primi di dicembre 2024 sono stati resi noti i dati di un’indagine Ocse-Piaac in 31 Paesi sulle competenze della popolazione adulta dai 16 ai 65 anni in ordine alla lettura e comprensione di testi scritti, all’acquisizione e all’utilizzo d’informazioni matematiche e alla padronanza nel risolvere problemi in situazioni dinamiche.
Considerando i primi due campi indagati la situazione del 26% degli italiani fa registrare livelli molto bassi, mentre per il terzo le persone in difficoltà risultano addirittura il 45,6% contro una media OCSE che fa registrare il 29,3% di performances negative.
L’Italia occuperebbe pertanto il quarto posto in Europa per tassi di analfabetismo funzionale, superata solo da Spagna, Portogallo e Bulgaria.
Non possiamo meravigliarci visto che da noi tra 25 e 65 anni poco più del 20% ha una laurea e il 38% ha un titolo di studio inferiore al diploma di scuola secondaria superiore.
Questi dati generali sul nostro Paese variano poi ovviamente in relazione a fattori quali l’età, il genere, il territorio in cui si vive, il contesto familiare ed economico e il possesso o meno della cittadinanza.
Tale livello di preparazione è davvero preoccupante se consideriamo i tentativi avuti da noi a partire dalla metà del secolo scorso per il miglioramento del sistema scolastico.
Se gli italiani ma anche gli europei hanno carenze sul piano cognitivo nell’elaborare informazioni e nel comunicare in modo efficace, se non riescono con facilità a interpretare dati e a svolgere calcoli complessi, ma soprattutto se presentano difficoltà nel dominio della soluzione dei problemi, è chiaro che siamo davanti a una condizione che dagli esperti viene definita come un analfabetismo funzionale che rende incapaci di vivere in modo attivo nella società superandone le questioni aperte per il proprio vissuto e per quello della comunità.
Un altro tipo d’incompetenza è quella che viene definita digitale, consiste nella difficoltà a gestire in modo adeguato strumenti e tecnologie e riguarda soprattutto le persone anziane a bassa scolarizzazione.
In Italia il 20% degli adulti non possiede un computer, un tablet o uno smartphone e dunque non utilizza il web ignorando completamente la terminologia informatica.
Queste persone rischiano nel giro di pochi anni di essere escluse non solo dalle nuove forme di conoscenza, ma anche da tutta una serie di servizi il cui accesso avviene sempre più attraverso sistemi di identità informatica.
Ci sono poi i cosiddetti migranti digitali che hanno imparato in età avanzata e in modo approssimato l’uso dei nuovi strumenti di comunicazione, ma li utilizzano in modo parziale e solo per talune funzioni.
I nativi digitali al contrario sono i giovani cresciuti con le nuove tecnologie che padroneggiano in modo naturale in tutta la loro complessità.
Questi ultimi prediligono la velocità di ricerca e comunicazione, ma rischiano anch’essi una forma di analfabetismo che li priva della lettura approfondita, della ricerca analitica, del confronto, del pensiero discorsivo, della comprensione dei testi complessi, della capacità elaborativa di scritti organici e ben strutturati sul piano morfologico e sintattico ma anche dell’abilità di calcoli complessi che non siano legati all’intelligenza artificiale.
La stessa diminuzione della soglia di attenzione, passata in circa vent’anni da dodici a soli otto secondi, ci dice che nell’informazione si privilegia sempre più l’immagine sulla parola e la velocità sull’approfondimento.
Capita allora sempre più che la lettura e la scrittura assumano forme ridotte, semplici, disorganiche.
Dovrebbe essere chiaro che chi rinuncia a un’informazione articolata e complessa come alla ricerca approfondita e a una comunicazione precisa e puntuale, rifiutando perfino il controllo della veridicità delle notizie, rischia di rendere se stesso vulnerabile rispetto al potere sempre più incontrollabile di quanti gestiscono le piattaforme internet e cercano sempre più spesso, alterando la verità, di farci confondere il vero con il falso e il male con il bene.
Senza una capacità di controllo delle notizie e dei dati il pericolo per tutti noi è quello di essere plagiati impedendoci decisioni informate e responsabili per una partecipazione libera e attiva alla vita democratica nel mondo in cui viviamo.
L’Unione Europea dopo la “Direttiva sul commercio elettronico 200/31/CE” dell’8 giugno 2000 ha poi approvato Il Digital Services Act, una legge del 2020 per garantire mercati e servizi digitali equi e competitivi nell’UE e introdurre misure più minuziose e specifiche per affrontare la moderazione dei contenuti, la trasparenza delle piattaforme e la protezione dei diritti degli utenti. La fornitura d’informazioni errate o fuorvianti alle autorità di regolamentazione può comportare multe fino al 6% del fatturato annuo per le società che gestiscono le piattaforme.
L’applicazione completa nel corso del 2024 di tale provvedimento è uno dei motivi delle contrapposizioni nei confronti dei Paesi europei da parte di Donald Trump o Elon Musk che cercano di difendere i profitti esorbitanti dei proprietari delle piattaforme informatiche intervenendo sempre più spesso e in chiaro conflitto d’interesse nelle questioni politiche europee.
L’ultimo Rapporto Censis ci ha messo in guardia dal pericolo di essere funzionali alla crescita dell’ignoranza attraverso un sistema scolastico inefficiente.
Intanto quello italiano va rafforzato sul piano strutturale, contenutistico, metodologico e culturale ponendo al centro dell’istruzione attività didattiche finalizzate a una formazione solida nei contenuti e nelle competenze evitando pertanto di disperdere energie su talune iniziative che quasi sempre sono dispersive per un apprendimento continuo e approfondito.
Non siamo ancora riusciti a realizzare praticamente delle attività didattiche articolate, flessibili e individualizzate capaci di rendere non solo formale ma davvero reale il diritto allo studio e anche su questo aspetto deve concentrarsi la riflessione e la ricerca di nuovi strumenti e attività sul piano educativo.
Ugualmente il livello universitario registra arretramenti nei sistemi d’insegnamento e in quelli di verifica che talora lasciano davvero perplessi per la loro semplificazione.
Abbiamo poi la necessità di creare una forma di educazione permanente capace di garantire sul piano culturale, scientifico e professionale un aggiornamento continuo dell’orizzonte culturale e delle competenze in ogni persona lungo tutto il corso della vita.
I fondi del PNNR dovrebbero avere proprio questa destinazione piuttosto che disperderli a pioggia come si sta facendo alle volte in talune opere inutili.
L’educazione permanente può sicuramente aiutare i più anziani ad acquisire le competenze digitali per evitare l’esclusione dal web e dai servizi connessi ai sistemi telematici.
Le strategie educative devono essere finalizzate a portare i ragazzi non solo ad essere consumatori ma anche produttori di sapere.
Questo comporta non solo la creazione di un vasto orizzonte culturale, di una solida preparazione nelle competenze di base, ma soprattutto la formazione di un eccellente spirito critico che metta in grado le persone di valutare in maniera analitica e profonda la qualità e l’affidabilità dei dati e delle informazioni derivanti sia dagli strumenti di ricerca cartacei che da quelli digitali.
Stare sui social per condividere rapidamente qualcosa o per relazionarsi velocemente può ancora essere utile, ma è altrove che occorre spendere il proprio tempo da dedicare all’informazione o per cercare il confronto delle idee.
Ciò è tanto più importante nel momento in cui da poco anche Mark Zuckerberg ha annunciato che, allineandosi ai criteri del rivale Elon Musk su X, chiuderà su Meta il sistema del fact checking (controllo dei fatti) con cui si fingeva di controllare almeno una certa qualità dei dati attraverso la gestione affidata a soggetti terzi e indipendenti per passare ora al criterio del Community Note che consente di accedere a un numero di battute aggiuntive a quelle consentite solo agli utenti ritenuti all’altezza i cui post tra l’altro non sarebbero sempre visibili all’intera platea del social network.
Dunque il controllo della veridicità dei contenuti e delle informazioni sarà affidato unicamente al confronto talora anarchico degli utenti.
In realtà sui social media non visualizziamo ciò che vorremmo, ma quello verso cui ci spinge un algoritmo.
Niente censura, ma sicuramente sono indispensabili da parte di società terze dei limiti di decenza alle fake new e alle non verità costruite per interessi economici o di potere.
Saper distinguere allora tra fatti e opinioni e riconoscere le fonti credibili e scientificamente fondate dev’essere una tra le facoltà più importanti che il sistema educativo deve maturare non solo nei giovani ma anche tra gli adulti perché essi possano diventare degli utenti razionali non solo dei social ma di Whatsapp e dello stesso Web.
La società in cui viviamo pone in primo piano le logiche del mercato, dell’individualismo e dell’arricchimento svalutando sempre più diritti fondamentali quali quello alla salute e alla cultura.
Le conseguenze che paghiamo in tal modo sono quelle di vedere la politica affidata a persone molto spesso incompetenti che stanno trascinando numerosi Paesi nel populismo, nel sovranismo e nelle cosiddette democrazie illiberali che altro non sono se non forme parafasciste di governo.
Formare allora cittadini aperti alla ricerca culturale, a un’informazione basata sul confronto critico e sulla pluralità delle fonti significa dare loro consapevolezza che ciò non rappresenta solo un obiettivo culturale, ma una grande necessità per la difesa di una democrazia sempre più sotto attacco un po’ ovunque nel mondo.
(Umberto Berardo)