Elezioni / Domani e dopodomani



In questi ultimi e roventi giorni di campagna elettorale, sul piano dell’informazione appare sempre più marcata la frattura tra media “tradizionali” e un mondo web certamente più articolato.
Nei primi, in genere, s’insegue l’attualità contingente delle dichiarazioni più “ad effetto” (ad esempio, le esternazioni di Berlusconi sul fascismo, quelle di Monti sull’intenzione di abbassare le tasse, quelle di Bersani sul Monte dei Paschi di Siena), trasformando i dibattiti in tribune elettorali o in casse di risonanza. Nei siti internet, viceversa, è possibile individuare anche analisi di spessore, che mirano ad inquadrare il momento politico all’interno di scenari di più largo respiro.
Gli analisti più qualificati e rigorosi, in genere quelli che appaiono meno in televisione, si soffermano soprattutto sulle connessioni tra i piani economici e sociali in una visione che tiene conto anche delle implicazioni sopranazionali. I loro esami, supportati da numeri e da accreditate fonti internazionali, mirano con pragmatismo a rispondere a quella che è l’istanza più presente nell’elettorato: cioè, cosa – brutalmente – potrebbe riservare a noi (preoccupati) cittadini il futuro prossimo e meno prossimo?
E’ un tema, causa di forza maggiore, presente in questa campagna elettorale.
Tuttavia la “lettura” della crisi in genere è limitata alla sola dimensione temporale. Ossia alla contrapposizione tra la possibilità d’intravedere un graduale ridimensionamento della recessione, l’ormai celebre “luce in fondo al tunnel” in virtù della tanto agognata “crescita” (come tende a rassicurare la maggior parte dei candidati, anche per dar forza alle proprie proposte orientate in tal senso), oppure all’ipotesi più sinistra che le difficoltà ormai sistemiche siano destinate a riproporsi con maggiore vigore in futuro, tesi caldeggiata primariamente dai movimenti più antagonisti, grillini compresi.
Ben diverse le analisi più approfondite che investono le responsabilità del mondo creditizio-finanziario e che stanno riprendendo vigore in questi ultimi giorni, dopo il caso del Monte dei Paschi di Siena, ma anche grazie alla presenza di “personale bancario” nelle liste elettorali. In particolare la tegola dei derivati, insieme agli intrecci affaristici e speculativi, stanno rilanciato la questione di come la preminenza bancaria e finanziaria – con appendici anche in ambito di rappresentanza politica – possa egemonizzare la vita collettiva di una comunità e minare il principio democratico, concorrendo anche a determinare veri e propri drammi sociali.
Del resto è noto che mentre i nuovi poteri internazionali viaggiano in entità disomogenee “aspaziali” e “atemporali”, caratterizzate principalmente dalla mancanza di regole, le tradizionali autorità statali, viceversa, assistono impotenti al proprio ridimensionamento e alla perdita di sovranità.
Pertanto, se da una parte nei dibattiti politici del momento si fa abbondante uso di slogan che, in virtù della chiarezza dei numeri, ricordano come l’entità del gettito Imu sulla prima casa sia equivalente alla somma per appianare gli “strani” debiti di una banca vittima di indubbie influenze partitiche (poco meno di quattro miliardi di euro) o che la Bce abbia fornito denaro ai colossi bancari al tasso dell’1%, il vero tema al centro dello scacchiere è il ruolo ormai cosmopolita – con una parola abusata potremmo dire “globalizzato” – dell’apparato bancario-finanziario.
E’ questo il punto centrale. Perché da esso deriva il corollario dei poteri decisivi – e, sembrerebbe, ineludibili – nella gestione delle politiche economiche e sociali degli Stati nazionali. I diktat piovono sempre più dagli organismi sopranazionali (in particolare da quelli europei), indipendentemente dalla volontà dei cittadini dei Paesi membri. E mirano a smantellare lo stato sociale attraverso le privatizzazioni (in Spagna è in atto quella della sanità), tagliando i servizi pubblici (emblematico il caso dei bus napoletani fermi perché senza carburante), ridimensionando le pensioni, restringendo le tutele dei lavoratori.
Da giugno prossimo, ad esempio, la Commissione europea potrà far sottoscrivere ad ogni Stato un vero e proprio contratto, dove indicherà le “riforme” da attuare e le modalità con cui realizzarle; i cosiddetti “meccanismi di solidarietà”, fortemente vincolanti, saranno riservati ai Paesi che sottoscriveranno tali intese, cedendo gli ultimi brandelli di sovranità.
La demonizzazione della crisi dei debiti sovrani costituisce il viatico per conseguenti regole impegnative sulle discipline di bilancio, sul tetto al rapporto debito/Pil (fiscal compact), sulla diffusione sistematica di drastiche misure di austerity, mentre l’uso dello strumento dello spread viene sempre più letto in chiave coercitiva (oggi – è l’ipotesi maliziosa – tenuto basso in Italia in attesa del potere ricattatorio nel dopo elezioni).
Inoltre è noto come i Paesi europei economicamente più forti stiano cavalcando tale condizione internazionale a proprio vantaggio, anziché pretendere regole di salvaguardia comune. L’appartenenza alla moneta unica, ad esempio, rappresenta per alcuni una ghiotta opportunità per aumentare la propria competitività a discapito di altri che non possono più utilizzare lo strumento della svalutazione difensiva.
Tale spinta, però, parallela alla sottrazione di quote di mercato da parte dei Paesi emergenti asiatici e sudamericani e ad una situazione economica sempre più critica, rischia di innescare in Europa contraccolpi pericolosi. Sia in chiave localista (si pensi ai rigurgiti autonomisti che stanno segnando molti Paesi europei) sia sul piano populista (con la crescita delle destre xenofobe, l’ultimo caso in Grecia con “Alba dorata”), ma anche su un piano di frattura generazionale, di cui poco si parla.
Per queste ultime ipotesi, si spera, le prospettive appartengono ad un futuro non vicino. Non domani, ma dopodomani. L’auspicio per i candidati ad affrontare tali nodi, compresi i tanti amici di banchieri, finanzieri e burocrati europei, è che ci pensino in tempo.

(Giampiero Castellotti – 2 febbraio 2013 – Uci)

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