Il silenzioso partito del “no euro”



Si è facili profeti nell’individuare nei temi economici – nell’accezione micro e macro – la benzina che accenderà la campagna elettorale che, di fatto, ha già preso il via da diverse settimane. E parlare di economia equivale ad imbattersi ossessivamente nel termine “crisi” coniugato in tutti i suoi paradigmi, da quelli “toccabili con mano” dai cittadini-elettori, come il dramma della disoccupazione, il disfacimento dello stato sociale, l’entità record delle imposte, fino alle annose e complesse questioni di spesa corrente, di bilancio pubblico, comprese le appendici sotterranee di malaffare o le connessioni internazionali.
Ma il termine è anche declinato in tutti i suoi archetipi dottrinali: nei tecnicismi didascalici, proferiti dalla pletora di docenti universitari di turno (quasi sempre con posizioni diametralmente opposte tra loro), nelle semplificazioni o banalizzazioni da spot elettorale (terreno fertile soprattutto per la cosiddetta anti-politica), nelle dietrologie complottiste spalmate su scenari internazionali fino ad una sfaccettata schiera di soluzioni ideali, utopistiche, radicali, estreme, eversive, persino destabilizzanti. In questo articolato panorama c’è un fronte che, benché molto variegato ma scarsamente rappresentato nella politica dei Palazzi, mira a far breccia tra i cittadini, sollevando soprattutto l’inconfutabile argomento del ridotto potere dei soldi: quello dell’anti-euro. E’ uno schieramento che sul piano delle rappresentanza politica raccoglie soggetti davvero trasversali e in gran parte ancora marginali (benché in crescita di consensi): dall’estrema sinistra ad una consistente fetta di grillini (per quanto il programma di questi ultimi presenti onestamente ancora molte zone d’ombra), dall’estrema destra di Forza Nuova e Casa Pound ad un nugolo di organismi decisamente estemporanei che cavalca la tigre del tema monetario.
Sul terreno accademico, però, il credo del “no-euro” può contare su un buon drappello di adepti che, benché da posizioni differenti, proprio sull’intransigenza di tale atteggiamento ideale sta godendo di una certa visibilità.
Marino Badiale, che insegna matematica all’università di Torino, è uno di questi “guru” italiani del pensiero “anti-monetaunica”. Con Fabrizio Tringali ha scritto un libro dal titolo esplicito: “La trappola dell’euro. La crisi, le cause, le conseguenze, la via d’uscita” (Asterios editore), appena uscito. Il campo d’indagine è su due livelli: da una parte, analizzando i dati macroeconomici dell’ultimo decennio, dimostra come l’adozione dell’euro non abbia portato i benefici sperati, in primis l’armonizzazione delle diverse economie, alimentando viceversa la creazione di forti e persistenti squilibri commerciali tra Paesi del centro e del sud Europa (in particolare l’economia della Germania ha finito per schiacciare quelle più deboli), nonché l’esplosione del debito privato; nel contempo, studiando le cause dell’attuale crisi dell’eurozona, il testo chiama in causa direttamente la moneta unica e le spinte alla libera circolazione di merci, servizi e capitali di cui è intrisa l’intera architettura dell’Unione europea.Gli autori denunciano, quindi, i nessi tra l’euro e la necessità, implicita nell’adozione della stessa moneta, d’introdurre riforme regressive nel mondo del lavoro, tra cui il “fiscal compact”, le modifiche costituzionali in corso, con la conseguenza del depauperamento delle condizioni di vita dei ceti medi e popolari e di restringimento degli spazi di democrazia. “Ci dicevano che la crisi è dovuta al debito pubblico, la crisi è dovuta a Berlusconi, la crisi è dovuta alla corruzione, alla mafia, la crisi è dovuta a questo Paese che non è capace di stare al pari con gli altri Paesi dell’Europa migliori di noi. Ecco, tutte queste cose, che possono essere in parte vere, in parte non lo sono affatto e in parte magari sono, per così dire, delle aggravanti rispetto ad una situazione di crisi che però non è assolutamente dovuta a questo ma è dovuta appunto alla moneta unica – spiega Tringali.
Badiale e Tringali criticano, pertanto, tutte le proposte di maggiore integrazione politica ed indicano la via d’uscita dalla crisi nell’abbandono della moneta unica e dell’Unione europea. Non manca uno sguardo al sistema politico attuale ed alle novità che presenta, dalla nascita di soggetti politici potenzialmente in grado di scompaginarne gli assetti, al consolidamento di idee e proposte che da tempo stanno emergendo dalla società civile, come quelle incentrate sul concetto di “decrescita”. Qui è chiaro il riferimento all’intellettuale francese Serge Latouche, che in uno dei suoi ultimi libri, “Per un’abbondanza frugale”, ritiene tra l’altro che i Paesi europei più deboli debbano favorire una politica di autoproduzione – ad esempio attraverso il sostegno all’economia del chilometro zero – e di riconversione ecologica, diminuendo anche la domanda di energia.
Particolarmente interessante l’analisi dell’excursus storico che ha accompagnato, anche in Italia, il percorso verso la moneta unica. Nel quale, tengono a sottolineare gli autori, le criticità di un’unione monetaria tra i Paesi europei erano assolutamente note già trent’anni fa. “Se rispetto alla crisi, diciamo così, iniziata nel 2007 negli Usa e nel 2008 proseguita, effettivamente si può dire che era stata ben poco prevista, per quanto riguarda l’unione monetaria e l’euro la crisi era stata ampiamente prevista dagli economisti; così restituiamo anche un po’ di dignità alla professione e alla scientificità della scienza economica, appunto, e delle tante persone capaci che di queste cose hanno parlato – sottolineano Badiale e Tringali. Il riferimento è a quelle prime discussioni europee – siamo alla fine degli anni Settanta – sull’esigenza di un sistema a cambi fissi che superasse il cosiddetto “regime di Bretton Woods”, cioè la parità dei cambi rispetto al dollaro e la convertibilità del dollaro con l’oro. Il primo “serpente monetario”, diventato poi “Sistema monetario europeo”, doveva garantire investimenti senza i rischi della fluttuazione del cambio. Già allora, benché i temi internazionali non godano di grande attenzione in Italia, la questione del Sistema monetario europeo (con cambi che potevano comunque fluttuare del 2,5% e addirittura del 6% per l’Italia, cioè una pacchia rispetto all’euro) sollevò accese discussioni nel nostro Paese.
Anche perché l’adesione allo Sme fu discussa in quel tragico 1978, anno del rapimento di Moro, con un governo monocolore Dc, guidato da Andreotti, con l’appoggio esterno del Pci. Proprio ambienti della sinistra individuarono il vulnus dell’adesione: l’Italia non avrebbe più potuto recuperare competitività, svalutando la moneta, dovendo inevitabilmente trasferire gli aggiustamenti nell’economia interna, cioè attaccando i salari e contenendo i consumi per rallentare l’inflazione. La Dc, per bocca del ministro Pandolfi, auspicò un sistema di distribuzione degli oneri, cioè di aggiustamenti, tra Paesi più e meno ricchi. Ma il successivo vertice di Bruxelles (dicembre 1978) sancì la sconfitta della posizione italiana per il solito asse franco-tedesco.
Scrisse profeticamente Guido Carli nelle “Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia” addirittura nel 1971: “Il perseguimento dell’unione monetaria con forte anticipo sull’integrazione delle economie può danneggiare alcune di esse e non consente una distribuzione fra i Paesi membri dei vantaggi e degli svantaggi connessi con il processo di unificazione. L’integrazione riguarda i fattori produttivi, le istituzioni in cui tali fattori sono organizzati, le norme che ne regolano e ne promuovono la circolazione, i prelievi fiscali e previdenziali, i trasferimenti di reddito compensativi. Senza l’integrazione delle economie, la rinuncia dei Paesi membri all’uso autonomo del tasso di cambio e degli altri strumenti di politica monetaria può danneggiare alcuni di essi”. Sappiamo che la rigidità dello Sme porterà l’Italia ad abbandonarlo a causa della grave crisi del 1992. Dichiarerà Bettino Craxi in un’intervista del 1997, ritrasmessa nei giorni scorsi da La7: “Si presenta l’Europa come una sorta di paradiso terrestre, ma per noi nella migliore delle ipotesi sarà un limbo e nella peggiore un inferno. Bisogna riflettere su ciò che si sta facendo: la cosa più ragionevole sarebbe stato richiedere e anzi pretendere, essendo noi un grande Paese, la rinegoziazione dei parametri di Maastricht”.
Altro paladino della battaglia contro l’euro è Alberto Bagnai (http://goofynomics.blogspot.it), che insegna politica economica all’università di Pescara. Il suo blog sulla versione on-line del “Fatto quotidiano” è tra i più letti. Il suo ultimo libro “Il tramonto dell’euro” (Imprimatur editore), appena uscito, è tra i più venduti. Bagnai punta tutto sulla chiarezza, non lesinando dati. Così, partendo dal percorso storico-empirico, analizza le principali crisi che si sono verificate negli ultimi trent’anni in giro per il mondo (Cile, Thailandia, Russia, Corea del Sud, Brasile, Argentina e naturalmente quelle europee, Italia compresa), correlandole all’esplosione del debito pubblico, alla disoccupazione, alla liberalizzazione del movimento di capitali, alla riduzione degli investimenti, alla moneta.
Su quest’ultimo punto spiega il significato di “Oca” (o “Avo”), cioè dell’area valutaria ottimale, escludendo ovviamente l’euro. Infine, illustra i possibili scenari dell’uscita dall’euro, soffermandosi dettagliatamente su mutui, tassi di interesse, inflazione, rilancio della domanda interna e degli investimenti, occupazione, ecc. In particolare Bagnai ipotizza una svalutazione del 20% nel passaggio tra l’euro e l’eventuale ritorno ad una moneta nazionale. Qui il tema si fa arduo perché non è certamente facile sfornare supposizioni con ragionevole certezza su ciò che succederebbe se si uscisse dall’euro: passaggio di non poco conto per le conseguenze non solo economiche, ma soprattutto sociali legate ad una così drastica presa di posizione. Un 20%, tra l’altro, non è poco: si pensi soltanto alla crescita di costo delle materie prime, prima fra tutte l’energia. L’esperto, poi, ribadisce un concetto: con la scusa del vincolo esterno (il ritornello “E’ l’Europa che ce lo chiede”), non potendo più svalutare la lira si sono svalutati i salari dei lavoratori. E proprio su questi vincoli si sofferma l’antropologa quasi novantenne Ida Magli, da sempre polemista nei confronti dell’Unione europea, autrice del libro “La dittatura europea”, pubblicato nel 2010 con Bur ma ancora estremamente attuale. Da sempre la Magli denuncia i limiti, le storture e gli errori d’impostazione dell’Unione europea. Ed oggi, con la crisi dell’euro e il collasso di interi Stati (e davanti a crescenti spinte separatiste) i fatti sembrano darle ragione. Uno dei temi del libro dell’antropologa è ineccepibile: l’unificazione è stata portata avanti per tentativi ed errori, e cinquecento milioni di persone diverse per lingua, storia, religione e costumi si sono ritrovate loro malgrado parte di una realtà che conoscono male e di cui nessuno gli parla. I vantaggi promessi non sono mai venuti e l’Unione europea, altro refrain, sembra soltanto un moltiplicatore di poltrone ad uso dei politici. Nel saggio, fortemente polemico, l’autrice affronta un argomento che pare tabù, indicandoci i responsabili di un progetto nato male, in cui gli stessi governanti non hanno fiducia. E, tra le ammissioni di giornalisti, politici, amministratori, industriali e uomini di Chiesa, ci mostra come nessuno si stia opponendo a quello che ritiene un processo disastroso ma inarrestabile.
Altro bestseller in materia è “Fermate l’euro disastro! Contro l’oligarchia finanziaria”, scritto da Max Otte, professore all’università di Graz, tra i pochi indovini della crisi finanziaria degli ultimi anni e della fragilità dell’euro, cui ha dedicato un lungimirante libro nel 1998. Il libro parte da un’accusa precisa: il denaro che l’Europa e noi cittadini abbiamo dato alla Grecia, all’Irlanda o al Portogallo, è finito nelle mani dei soliti che si accaparreranno i gioielli di Stato a prezzi ridicoli, sulle rovine dello stato sociale. Il rischio è che ciò accada anche in Italia. Che fare, allora? Proseguendo così continuiamo ad alimentare un mercato che rende più ingiusta la nostra società mettendo in pericolo la democrazia. Dobbiamo allora ribellarci allo strapotere dei grandi gruppi bancari che penalizzano l’economia reale costringendo i cittadini e i lavoratori a pagare per chi si arricchisce. Secondo Otte non è necessaria una rivoluzione, basta molto meno, a patto che le nuove regole siano radicali. Perché l’oligarchia non ha un piano occulto per dominare il mondo, difende semplicemente i propri interessi. Ad ogni costo.
Sul fronte degli euroscettici c’è un altro movimento che sta raccogliendo numerosi proseliti nel nostro Paese: quello legato al giornalista Paolo Barnard e al programma “Me-Mmt (Moderrn money theory) di salvezza economica per il Paese” (http://paolobarnard.info/intro.htm). Anche qui si auspica un ritorno alla lira e alle sovranità costituzionali, parlamentari e monetarie.
Dulcis in fundo, tra i più seri euroscettici, tra l’altro della prima ora, va annoverato (insieme all’economista Paolo Savona) un ex ministro democristiano, che oggi – a più di novant’anni – continua a predicare contro euro e i diktat dell’Europa addirittura su Youtube: è Giuseppe Guarino, che è stato professore di diritto di Giorgio Napolitano e di Mario Draghi e che ha avuto Francesco Cossiga come assistente. Il suo corposo saggio “Euro: venti anni di depressione (1992-2012)”, appena pubblicato, è degno più di un tecnico che di un politico.Dimostra, ad esempio, come sia falso che le passate generazioni abbiano danneggiato le nuove: i giovani vivono ancora su quanto accumulato da nonni e genitori. E dimostra come l’Italia, dal 1945 al 1980, sia stata prima al mondo per sviluppo (con media “cinese” del 5,25), crescendo fino al 1992, seconda solo alla Germania. Casuale che da Maastricht (1992) in poi, l’Italia sia passata dal primo all’ultimo posto tra i grandi Stati? Torna l’assioma: abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria, figli della rigidità dei vincoli europei che ci stanno conducendo alla povertà. Soluzione? Via dall’euro.
Per chiudere questa panoramica sugli avversari dell’euro, se spostiamo la nostra attenzione su materie collaterali – e in non pochi casi “concomitanti” – con la questione della moneta, come i diktat della finanza internazionale, l’indebitamento delle banche, la perdita di sovranità degli Stati nazionali, i nodi dell’europeismo, c’imbattiamo in un fronte di supporters più ampio e strutturato – che va dal populismo dipietrista al localismo tremontiano con Lega al seguito – che rischia però di rinnovare quell’essenza referendaria della prossima tornata elettorale (basata più sugli istinti che non sui contenuti) in cui all’eterno nome dell’ “antipolitico” Silvio Berlusconi si va a sostituire quello del “supertecnico” Mario Monti.

(Giampiero Castellotti – 16 dicembre 2012)

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