Un tempo, specie al Sud, i passaggi esistenziali – coltivati all’interno di una famiglia – erano scanditi da un obiettivo primario racchiuso in una parola abusata: la “sistemazione”. Un termine rassicurante che equivaleva al pieno inserimento sociale e alla conquista di una buona reputazione nella comunità di appartenenza.
Il lavoro e il matrimonio, spesso il primo una “conditio sine qua non” per il secondo, costituivano i pilastri di tale processo orientato essenzialmente al “quieto vivere” nella continuità generazionale. La civiltà contadina ha rappresentato il terreno fertile dove tale archetipo ha goduto di un’infinita persistenza.
Questo modello, debitamente acutizzato e distorto, incarna da sempre l’architrave anche delle nostre tessiture sociali e degli organismi amministrativi, specie in Italia. La “sistemazione”, nel rapporto tra cittadino-elettore ed amministratore-eletto, ha raffigurato – e spesso continua a raffigurare – la proficua merce di scambio con il potere. E in fondo la stessa conquista del potere garantisce una “sistemazione” quanto mai illimitata. Tutto ciò s’inserisce agevolmente in un contesto dove l’apicale commercializzazione dei nostri tempi altera non soltanto l’articolazione dei valori civili, etici e culturali, ma persino i rapporti economici un tempo imperniati armonicamente sugli equilibri tra forza-lavoro, produzione e scambio di merci.
Il paradosso più evidente è che lo smantellamento di tale paradigma sociale è stato – specie negli anni Settanta e, da ottiche diverse, negli anni Ottanta – sinonimo di evoluzione del costume e della società. E se con il Sessantotto lo smembramento ha avuto radici culturali (e persino antropologiche), vivendo la fase storica come rottura della coercizione imposta “dalla borghesia” per perpetuare le condizioni sociali a lei più favorevoli, dal decennio seguente è stato l’abbaglio dei consumi facili ad annientare non solo gran parte di quei valori tradizionali, ma anche le conquiste sociali degli anni precedenti (tuttavia rispondenti più all’ottimizzazione del presente che non, con letture lungimiranti, alla salvaguardia delle future generazioni, ad esempio sul fronte previdenziale).
In entrambi i casi, per nonsenso, sono stati coltivati – e in modo quanto mai cinico – gli embrioni di quel processo di “precarizzazione del vivere”, sbandierato come “liberazione” dagli stretti retaggi del passato. Ciò anche grazie al contesto di rilevante (e relativo) benessere economico che ha accompagnato quella fase. Specie per le nuove generazioni, la prosperità ha costituito il paracadute per attuare senza rischi il radicale cambio di abitudini.
Oggi che la “sistemazione”, in tutte le sue ampie accezioni, è sempre più una chimera, nonostante permanga nelle aspirazioni individuali e familiari (si pensi, ad esempio, al fascino che continuano ad avere quei pochi concorsi pubblici), lo smantellamento del mondo del lavoro rappresenta sostanzialmente (e amaramente) la vittoria di quelle forze – estranee alla volontà del popolo – che esprimono i soli interessi della classe dominante. E in una drammatica spirale senza controllo, la precarizzazione rischia di trascinare con sé quelle ultime libertà politiche e istituzionali contemplate nella concezione della democrazia.
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