Stillicidi “quotidiani”



Sotto i cinque milioni. Il numero delle copie giornaliere diffuse dai quotidiani italiani è ormai in caduta libera. Se ne vendevano di più settant’anni fa. Allora, non c’era la concorrenza di tv e internet, d’accordo. Ma l’Italia aveva quindici milioni di abitanti in meno. Un maggiore tasso di analfabetismo. Molte meno copie di quotidiani sportivi. Una cattiva distribuzione. E soprattutto un giornalista-duce. Preoccupato di tarpare le ali alla libertà di stampa.
I dati Ads (Accertamento diffusione stampa) confermano le macerie. Tra agosto 2009 e luglio 2010, il Corriere della Sera ha perso il 13,7% delle copie diffuse. E’ ormai sotto le 500mila. Per Il Sole 24 Ore le cose vanno peggio, con un -14,1%. Anche La Repubblica segna la debacle, con -8,2%. La Stampa, a quota 286mila, è il giornale più ridimensionato degli ultimi anni. Il Corriere dello Sport e Il Messaggero sono sotto le 200mila copie. C’è di più: la netta differenza tra copie diffuse e realmente vendute, che rende il quadro ancora più sconfortante.
Nonostante la liberalizzazione dei punti vendita, tra il 2000 e il 2009 l’Italia ha registrato un calo della diffusione dei quotidiani di circa il 15%. Certo, la crisi è globale. Ma al di là dei fattori strutturali che si sommano a quelli ciclici, della concorrenza on-line (meno dei free press) e della crisi economica (che significa anche caduta degli investimenti pubblicitari), esistono peculiarità “di casa nostra” davvero scoraggianti.
Mentre, ad esempio, negli Usa e in mezza Europa la contrazione del mercato riduce il numero dei quotidiani, da noi, nonostante la crisi, aumenta il numero dei giornali in vita. Segno di una piazza drogata dalle tante testate tenute in piedi dai contributi pubblici. Ufficiali e meno ufficiali.
C’è, poi, un incontrovertibile dato: gli italiani hanno bassa propensione alla lettura. L’Istat, nell’indagine annuale “Aspetti della vita quotidiana”, rivela che un italiano su due dichiara di non leggere quotidiani. Con il rituale divario tra Nord e Mezzogiorno. E percentuali che, una volta tanto, penalizzano le donne rispetto agli uomini.
C’è altro. I giornali italiani hanno perso qualità. Non solo nella cura e nel rigore (a furia di tagli e di frotte di stagisti che stazionano nelle redazioni). Ma anche nel ruolo. Divenendo casse di risonanza per beghe personali, bizantinismi o interessi delle “proprietà” (che non sempre coincidono con l’editore). Sono sempre più specchi e meno osservatori critici della società. Privilegiando l’effimero all’approfondimento. Diseducando con la cultura del pettegolezzo. Con il servizio pubblico a far da capofila nel processo d’imbarbarimento.
Molte testate hanno messo da parte l’informazione per indossare casacche “movimentiste”. Capaci – nell’agone della politica italiana – di aggregare passioni. Di far leva sull’indignazione popolare. Di serrare ranghi. Di creare legami identitari. Di calamitare lettori in campagne falsamente moraliste. Riuscendo a fidelizzare qualche utente in più (ma a danno di molti altri).
Ciò è aggravato dalla disaffezione dei giovani – i potenziali consumatori del futuro – per la carta stampata italiana. Al contrario di ciò che avviene in altri Paesi europei. Attesta l’Unesco che in Germania, il 47% dei ragazzi tra i 14 e i 19 anni legge un quotidiano, il 58% tra i 20 e i 29 anni. In Austria, addirittura il 61,1% dei 14-19enni e il 66,8% dei 20-29enni.
E’ proprio il confronto internazionale ad assegnarci la definitiva maglia nera. Siamo alla media di una copia ogni 14 abitanti rispetto alla copia ogni 2, 3 o 4 abitanti dei Paesi nordici e di altri Stati europei. Ormai, per diffusione, l’Italia è dietro anche a Spagna, Portogallo e Grecia.
Sono proprio queste aggravanti italiane a rendere più fosco un quadro caratterizzato da una crisi globale che mina il ruolo stesso dell’informazione. E, per più di qualcuno, del concetto stesso di democrazia.
La generalizzazione del digitale (laddove, ad esempio, un motore di ricerca assume più appeal di un organo d’informazione), il dirottamento delle risorse pubblicitarie dalla stampa ai servizi informatici e il calo d’interesse da parte delle nuove generazioni sono i tre primari fenomeni inquadrati da Bernard Poulet, redattore capo di Expansion, nel suo recente saggio “La fin des journaux et l’avenir de l’information” (“La fine dei giornali e l’avvenire dell’informazione”).
Se Jean-François Fogel e Bruno Patino, nel loro “Une presse sans Gutenberg” (“Una stampa senza Gutenberg”) del 2005, avevano profetizzato una complessa e difficile “ricollocazione” della stampa su internet, Poulet si mostra “catastrofista illuminato” (citando il suo guru, il filosofo Jean-Pierre Dupuy) e parla di “sopravvivenza compromessa”. Insomma, la carta agonizza.
Basandosi sui lavori del ricercatore americano Robert G. Picard (ma anche di Nicholas Carr, Martin Nisenholtz e David Simon), il giornalista francese rileva come l’interesse delle nostre società per l’informazione si stia erodendo sempre più (“anche su internet i lettori dei giornali invecchiano, l’età media degli utenti dei giornali on-line è passata dai 37 ai 42 anni tra il 2000 e il 2005”). Lasciando spazio al potere subdolo del marketing.
Cambia, quindi, il “valore” della comunicazione. La “qualità” di ogni singolo articolo (e non più dell’intero giornale), ma anche di una semplice “faccia” o di una “firma”, si misura sulla capacità di attirare pubblico. E quindi inserzionisti. Il freddo numero di clic digitali (o di ascolti) fa eclissare millenni di cultura umanistica occidentale. La capacità critica cede il passo all’estorsione del facile benestare. Degrada anche la posizione del costoso giornalista; a meno che non si ricicli nella maschera prezzolata di “personaggio” dalle mille apparizioni (e in genere colluso con la “casta” delle èlite dirigenti), è scalzato dall’operoso e celato “moderatore” o dal più efficace “appassionato”. Con lo sbiadirsi dei ruoli, siamo al relativismo egualitario. In un’ottica di rendita, i tanti commenti dei lettori valgono più dell’opinione del massimo esperto. E’ l’era dell’informazione low cost. E’ il trionfo della neonata “economia dell’attenzione” che produce il musiliano “uomo senza qualità” dal consenso molle.
Gli editori sono disorientati. Sulle ceneri della carta cercano di ricollocarsi tramite economie di scala, diversificazioni, format, commerci on-line, localizzazione dei servizi, strategie multimediali globali. Le nuove strategie di business, però, finiscono per snaturare e declassare prodotti sempre meno informativi e professionali, imposti dai diktat delle tecniche di vendita.
L’Italia, nel bene e nel male, è dentro questo processo. Grazie agli indubbi progressi nell’informatizzazione. L’Eurisko quantifica tra i 20 e i 23 milioni gli utenti on-line (ma con una bassa frequenza d’uso: ogni 6,3 giorni al lavoro, 2,3 a scuola). L’Authority delle comunicazioni ha decretato lo scorso 7 dicembre il superamento della soglia dei due milioni di domini registrati. Siamo in una discreta posizione tra i Paesi industrializzati. Ma – male atavico – l’uso di internet è soprattutto ludico. L’affezione ai siti informativi è debole: addirittura tra agosto 2009 e 2010, in una fase che dovrebbe essere stata di crescita, i tre principali quotidiani italiani hanno perso oltre 400mila utenti nell’on-line.
A far comunicazione – globale, grezza, “comunitaria” – rimangono insomma i vari Facebook, Youtube, Google. Strumenti in grado, soprattutto, di sottrarre pubblicità ai giornali. Seminando ulteriori incognite sul futuro della carta stampata, dal momento che il mercato globale dei quotidiani dipende per il 57% dalla “reclame”.

(Giampiero Castellotti – 5 gennaio 2011)

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