La gazzarra delle libertà



La gazzarra delle libertà

Ad un “ben frequentato” Ufficio delle entrate della Capitale c’è uno di quei travet pubblici di scuola fantozziana che ha acquisito un bel po’ di notorietà non solo per le sue bizzarre cravatte alla Speroni, che forse contrappone al grigiore dell’ambiente di lavoro, ma soprattutto per le performance da stopper assoluto, tipo – per i cultori del pallone d’annata – Rigamonti del Toro o Brio della Juve.
Quando il portone principale serra inesorabilmente i battenti, lui come un rugbista – pur non avendone il fisico – si piazza alla porta secondaria, che di regola sforna impiegati freschi di tornello, per prevenire i maliziosi accessi di utenti ritardatari (e spesso abili “contorsionisti”, di fisico e di parola).
Certo, talvolta nella rete ci scappa qualche innocente, costretto ad un andirivieni per questioni di errori compiuti da impiegati non proprio impeccabili. O perché le marche da bollo dal tabaccaio ormai dipendono dalle bizze delle nuove tecnologie (quindi fuoriescono ad intermittenza). O ancora perché in banca i moduli sono ormai preziosi quanto azioni e obbligazioni da rifilare al cliente. Ma il perfetto statale non ammette ritardi: le regole sono regole e vanno rispettate. O almeno “andrebbero”.
Perché essere al di sopra delle regole è ormai la sola regola dominante per tentare di eludere l’apparato amministrativo. Cioè il più grande compendio di regole del “made in Italy”.
Ecco perché i “pastrocchi” seminati dal centrodestra lungo l’insolita retta Roma-Milano e il singolare asse Polverini-Formigoni (che rischiano di rimanere nomi utili come marchi da DDT), rappresentano un “pasticcio all’italiana” che va oltre i contorni tragicomici della vicenda: l’improvvisa “voglia” di panino overtime, il trillo malefico del cellulare menagramo, la supposta violenza privata da parte di alcuni militanti radicali (ma non erano gli ultimi pacifisti?), il congetturale abuso d’ufficio da parte dei muscolosi componenti dell’Ufficio Centrale, l’amore “letterario” tra finiani e berlusconiani nel cancellare o reinserire nomi, gli appelli a Napolitano, la maratona oratoria – in verità un po’ afona – a San Lorenzo in Lucina rispolverando, alquanto furbescamente, l’abc della democrazia (il canto del cigno?). E via di questo passo, tra milioni già spesi (inutilmente?) da parte dei candidati Pdl e il rischio che ci ritroveremo i componenti di liste minori quali insperati consiglieri regionali, da Ettore Viola e Mario Brozzi, rispettivamente figlio dell’ex presidente ed ex medico della Roma, fino all’attrice Pamela Villoresi o all’ex comandante dei vigili del fuoco, Luigi Abate. Ma a prescindere da quale risvolto avrà tutta la vicenda, questi sono soltanto dettagli.
Il succo mellifluo dell’imprevedibile avventura è nell’improvvisa crociata contro la povera burocrazia delle scartoffie, effettuata proprio dalla casta che l’ha inventata e ben dissodata a furia di norme e cavilli. Contro le sottigliezze degli incartamenti s’invoca proprio quel “buon senso” che non è una categoria del diritto, soprattutto quando sotto le forche caudine si ritrova un cittadino “disarmato”. Il rischio del boomerang – anche elettorale – è allora evidente. Ma è sottovalutato da chi non vive sulla propria pelle le analoghe e quotidiane vicende “di ritardi” in cui incorrono i comuni mortali: c’è forse una “soluzione politica” per le more da pagare a causa dei differimenti? O c’è un ricorso al Tar per un esame universitario non sostenuto per un ritardo dovuto al mezzo pubblico fatiscente? E’ possibile rimettere indietro l’orologio per un ricorso annullato dal giudice di pace per un indugio? Di burocrazia si muore. Auguri.

(Giampiero Castellotti – 3 marzo 2010)

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