Chi bombarda Gaza



Le ennesime e drammatiche notizie provenienti da Gaza, striscia di terra lunga quaranta chilometri e larga, al massimo, dieci, dove vivono oltre un milione e settecentomila persone, diventata ancora una volta un vero e proprio “mattatoio umano”, non possono essere liquidate né con equidistanti dichiarazioni di rito, né con i tentativi di individuare responsabilità politiche. E né, peggio ancora, con semplici e faziose scelte di campo verso una o l’altra parte in conflitto, come sono soliti fare molti mezzi di comunicazione non proprio svincolati da interessi politici e commerciali.
L’ennesimo massacro imposto “dall’alto” su una popolazione innocente, lo stillicidio di vittime effettuato con l’ipocrisia di svuotare preventivamente le abitazioni civili e di effettuare attacchi paradossalmente “chirurgici” in una zona tra le più densamente popolate del mondo, la belligeranza incessante che banalizza e degrada il valore delle vite umane – persino di quelle dei bambini – nella fredda conta quotidiana dei morti, deve indurre le coscienze a dire fermamente e indiscutibilmente basta.
Il rifiuto delle logiche di morte può essere contestualizzato in una dimensione etica, politica, civile e, per chi ci crede, religiosa. E soprattutto – per quanto il termine sembri desueto – in un costante impegno pacifista. Perché ciò che sta avvenendo in Medioriente è soprattutto l’effetto di un attivismo bellico che non si limita a cruente operazioni militari come quella di Gaza, ma è incarnato in interessi economici che toccano congiuntamente le multinazionali degli armamenti e delle tecnologie di morte (l’unico business che non conosce crisi) e i principali governi occidentali. Passando attraverso capacità di lobbies, cooperazione tra Stati occidentali nel settore della difesa, nella formazione e nell’addestramento del personale, nella ricerca e nello sviluppo nel settore industriale, negli accordi di collaborazione per manovre militari congiunte.
La distanza tra il sangue delle vittime inconsapevoli e il denaro che accompagna tutto l’anno la frenesia diplomatica e produttiva, se è assai vicina nel rapporto causa ed effetto, è contemporaneamente lontana nella logica dell’uomo pensante.
L’Italia non è esente da tali responsabilità. Come denuncia da tempo la Rete italiana per il disarmo, che raggruppa le principali organizzazioni pacifiste italiane, supportata dai dati dell’Unione europea, il nostro Paese è attualmente il maggiore fornitore europeo di sistemi militari ad Israele per un valore di oltre 472 milioni di euro nel 2012. E secondo un rapporto del quotidiano israeliano “Ha’aretz”, nello stesso anno il valore totale delle esportazioni israeliane di armi è stato pari a sette miliardi di dollari. Antonio Mazzeo, noto giornalista impegnato da sempre nei temi della pace, ha diffuso un dato emblematico: in Israele sarebbero ben 6.784 gli imprenditori privati che si occupano di esportazione di armi.
Il più delle volte gli accordi commerciali servono a mantenere attive le produzioni, risolvendosi in veri e propri interscambi. Ad esempio, nel luglio 2012 s’è registrata una delle più importanti operazioni commerciali di materiale bellico tra Italia e Israele: se l’Alenia Aermacchi, società di Finmeccanica, ha formalizzato la vendita di trenta “M-346” al Paese ebraico attraverso un accordo che ha incluso velivoli, motori, manutenzione, logistica, simulatori e addestramento per un giro d’affari dell’intera commessa intorno al miliardo di dollari, nel contempo Tel Aviv ha imposto alle forze armate italiane l’acquisto di due velivoli prodotti dalle aziende Israel Aerospace Industries ed Elta Systems, per un valore complessivo di circa 800 milioni di dollari.
Dietro a questi accordi c’è un lavoro diplomatico costante che riesce anche a “forzare” i limiti normativi. Ad esempio, nonostante la legge italiana n. 185 del 1990, che regola l’esportazione di armamenti italiani, vieti le vendite a Paesi belligeranti o i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali dei diritti umani, la legge 94 del 17 maggio 2005, con voto quasi unanime del Parlamento italiano, ha ratificato uno storico accordo generale di cooperazione tra Italia e Israele nel settore militare e della difesa. Della lunga lista di incontri tra rappresentanti istituzionali dei due Paesi possiamo ricordare velocemente quelli del novembre 2009 tra il ministro della difesa Ignazio La Russa, l’omologo israeliano Ehud Barak e il premier Benjamin Netanyahu e del febbraio 2011 tra i comandi dell’Aeronautica militare italiana e dell’Israel Air Force. Tra le visite ufficiali quella del luglio 2010 di Gabi Ashkenazi, Capo di Stato maggiore delle forze armate israeliane, a Roma, ricambiata nel dicembre 2010 a Tel Aviv da quella del generale Vincenzo Camporini, Capo di Stato maggiore italiano. Nel giugno 2012 è venuto in Italia il generale Ido Nehushtan, comandante delle forze aeree israeliane, che ha visitato i reparti di volo di Pratica di Mare, di Lecce e di Grosseto.
Da non dimenticare le tante esercitazioni militari congiunte, a furia di bombe e missili a guida di precisione, da quella in Sardegna dell’ottobre 2012, presenti anche forze aeree tedesche e olandesi, a quella di dicembre 2012 nel deserto del Negev, a cui hanno partecipato anche velivoli dell’Aeronautica militare italiana, fino alle due presso Haifa, presenti gli incursori di La Spezia, alla cui vigilia il generale Amikam Norkin dell’Aeronautica israeliana rese noto che Tel Aviv aveva avviato la sperimentazione di “nuove procedure per abbreviare la durata delle future guerre” e “accrescere di dieci volte il numero di obiettivi da individuare e distruggere”.
Se oggi a bombardare Gaza c’è Israele, non può essere insomma ignorata la complicità dell’industria bellica internazionale. Gli “F15” e gli “F16” sono forniti a Israele dagli Usa, i sottomarini “Dolphin” sono di produzione tedesca, mentre i caccia italiani “M-346” Alenia Aermacchi costituiscono solo una minima quota della “cooperazione militare italo-israeliana”, istituzionalizzata dalla legge n. 94 del 17 maggio 2005 e rafforzata da vertici e da esercitazioni congiunte che è, appunto, utile ricordare.
Gli interessi dell’industria bellica vanno quindi posti al centro dell’attuale questione mediorientale. Tuttavia non si possono ignorare le altre questioni al tappeto, da quelle storiche, con le responsabilità europee, al nuovo ruolo di Netanyahu preoccupato dalle cronache politiche dei Paesi limitrofi (a cominciare dall’Egitto), e di Hamas, che ha rotto la linea di relativa moderazione, fino ai venti fondamentalisti che stanno crescendo in tutto il Medioriente: in particolare preoccupano le cronache del “Califfato” in Iraq, con la riesumazione delle antiche glorie dell’Islam e le bandiere dell’Isis presenti ai funerali a Gaza.
Questo complesso intreccio conferma come la crisi palestinese non si possa risolvere con le prove di forza, che favoriscono soltanto l’industria bellica e i suoi ramificati interessi. La soluzione, come giustamente indica Sergio Romano dalle pagine del Corriere della Sera, non può che essere un compromesso tra le posizioni estreme di ciascuna delle due parti.

(Giampiero Castellotti – luglio 2014)

documento ufficiale di “Forche Caudine” per la manifestazione “Campobasso Stop Bombing Gaza”
di lunedì 21 luglio dalle ore 18,30 a Campobasso

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