I rischi per l’energia tra petrolio e nucleare



Tra il disastro ambientale nel Golfo del Messico della scorsa estate – milioni di barili di petrolio fuoriusciti dalla rottura del pozzo sottomarino – e il disastro nucleare di Fukushima, si può individuare un nesso che dipende da un elemento poco noto: quanta energia è necessaria in media per l’estrazione di petrolio dai giacimenti. Infatti anche estrarre il greggio dai giacimenti, come tutte le attività umane, richiede energia.
Nel 1950 per tirar fuori 100 barili di petrolio bastava l’equivalente energetico di un barile di petrolio, perché i giacimenti maggiori erano facilmente raggiungibili. Questo rapporto tra energia ottenuta ed energia impiegata – noto con l’acronimo inglese EroEI (Energy Returned on Energy Invested) – nel settore petrolifero iniziò a scendere rapidamente al di sotto di 80 nel giro di un decennio e durante gli anni Sessanta precipitò a 30.
In quel decennio si scoprirono nuove riserve per oltre 220 miliardi di barili di petrolio, un record. Nei tre decenni successivi sono state scoperte riserve per soli 22 miliardi di barili.
Appena dopo la crisi petrolifera del 1973, l’ERoEI per il petrolio era sceso a 20 e da allora, pur rallentando la caduta, si è ridotto ulteriormente. Oggi si stima che l’ERoEI per il petrolio sia inferiore a 10.
La situazione non è molto diversa per altri combustibili fossili tradizionali. Anzi, per alcuni come il carbone è ancora più basso (e lo stesso vale per i biocarburanti) mentre per la produzione di energia nucleare è di poco superiore a 10. Certo, questo numero rappresenta una media stimata e cela vaste differenze, per esempio tra gli enormi giacimenti nei deserti dell’Arabia e quelli che si trovano a chilometri dalla superficie del mare.
Tuttavia, per quanto la stima possa essere imprecisa, il punto incontrovertibile è che le fonti di energia da cui dipendiamo comportano costi sempre più alti cui corrispondono minori profitti. Questa situazione ha indotto il settore energetico, in particolare alcune compagnie petrolifere, a correre rischi sempre maggiori di cui l’opinione pubblica, e spesso anche le autorità, hanno una percezione nebulosa. Spesso questi rischi vengono trascurati o ignorati perché anche la valutazione del rischio richiede studi, soldi e risorse. E nell’ansia di iscrivere a bilancio gli introiti e nella spinta a tagliare i costi, il buon senso perde terreno.
Ma Deepwater e Fukushima hanno rappresentato un corso accelerato per la pubblica opinione mondiale sui rischi cui siamo sottoposti e quindi innescheranno ripercussioni profonde. Nel breve periodo la domanda di energia dipende dalla crescita globale, ma nel lungo è influenzata dalle politiche dei governi dei Paesi che sono maggiori consumatori. È la “Sequenza delle 3 P”: Percezioni di rischio da parte dell’elettorato (si veda la cocente sconfitta della Merkel in Baden Wüttenberg), che determinano le Politiche pubbliche e, a seguire, i Prezzi mondiali.
Con il vagheggiato rinascimento nucleare già al capolinea per saziare la fame di energia (anche ipotizzando drastiche riduzioni nell’uso) serviranno diverse decine di milioni di barili di petrolio al giorno che si prevede possano venire principalmente da idrocarburi non convenzionali come lo shale gas in Nord America (e in prospettiva in Germania, Regno Unito e forse Cina), dai depositi di sabbie bituminose canadesi e dai giacimenti al largo delle coste brasiliane. Però finora si è trascurato che queste fonti comportano rischi che nessuno ha valutato a fondo. Per esempio lo shale gas viene estratto attraverso un processo altamente tossico chiamato hydro fracking (o semplicemente fracking) che mette a repentaglio le falde acquifere. In America già infuriano le polemiche con il New York Times che il mese scorso ha denunciato la presenza di radioattività nelle acque destinate alle case perché i sistemi di depurazione non riescono ad eliminare le scorie presenti nei liquami di scarto dell’hydro fracking.
Il petrolio nelle sabbie bituminose è praticamente solido. Quindi per estrarlo bisogna eliminare la vegetazione, poi rimuovere gli strati superficiali del suolo e quindi scavare per diversi chilometri. Si trasformano foreste in paesaggi lunari di polvere grigiastra. Inoltre l’EroEi per questo petrolio (tra l’altro di bassa qualità) è intorno a tre.
Infine i giacimenti sottomarini scoperti in Brasile sono a circa 200 miglia dalla costa e a diversi chilometri dalla superficie. La maggior parte è al di sotto di rocce saline spesse fino a due chilometri e quindi l’estrazione richiederà l’uso di tecnologie ancora da sviluppare appieno.Soluzioni semplici non sono disponibili e il punto di svolta rappresentato dai grandi disastri ambientali (e dalla situazione geopolitica nel Medio Oriente) apre una fase imprevedibile. Sarebbe opportuno introdurre subito misure drastiche di risparmio energetico (contro cui si batte la lobby delle società elettriche e dei petrolieri), puntare sulle fonti rinnovabili che hanno un EroEi molto più alto di quelle da idrocarburi (anche se oggi ancora non sono competitive), e potenziare la ricerca sia di base che applicata con uno sforzo paragonabile al progetto Apollo o al progetto Manhattan. Accantonando una volta per tutte le favole sul nucleare.

(Fabio Scacciavillani – Il Fatto quotidiano e Forche Caudine – 14 aprile 2011)

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