Nel black-out mediatico di sondaggi e sondaggisti – dura lex, sed lex (ma ce ne facciamo volentieri una ragione) – la cartina al tornasole dei consensi torna ad essere rappresentata dalle tradizionali piazze. Il dato inconfutabile è che quelle della cosiddetta “anti-politica” sono piene. Piazza San Giovanni in Laterano a Roma, storico catino degli umori sociali, venerdì prossimo offrirà probabilmente l’ultimo grande spot elettorale ai grillini. Ma, in fondo, riempiendo le piazze, l’anti-politica diventa politica allo stato puro, seppur con strumenti, azioni o linguaggi talvolta verniciati di fresco (a livello di marketing – è innegabile – il berlusconismo ha fatto scuola).
La vera contrapposizione diventa allora un’altra: la tanto demonizzata “cattiva politica”, sovrapposta nell’immaginario collettivo alla “vecchia politica”, può davvero alimentare per antitesi la “buona politica”, genericamente accomunata alla “nuova politica”, cioè quella dei neofiti che superano persino le classiche collocazioni a destra o a sinistra (vedi Grillo, Giannino o lo stesso Monti)?
Il rischio di simili ostilità, incentrate su sommarie “voglie di cambiamento” (anche radicale) a tutti i costi, è nello svilimento del ruolo stesso della politica. Ossia la ricerca del “nuovo” a tutti i costi, soprattutto tramite i trasformismi, porta a rafforzare un coro molto variegato che scarica responsabilità e strali sulla politica in quanto tale, svilendone la funzione di vessillo democratico. Cioè la politica ha colpa di tutto, non i singoli uomini che la compongono o perlomeno il sistema di cui costituiscono parte integrante.
Questa campagna elettorale, segnata dalle cronache recenti e presenti del malaffare, è segnata profondamente dalla caccia alla generica “cattiva politica”. Un calderone in cui è confluito di tutto, dalla pessima gestione dei rimborsi elettorali alle investiture in odore di mafia, dagli intrecci affaristici con credito e finanza agli esecutori dei diktat internazionali. Ma le responsabilità di tutto ciò, nelle nuove e intonse liste elettorali, sembrano svanite. Per il “rinnovamento” è bastato estromettere qualche candidato imbarazzante o realizzare scelte di campo davvero funamboliche. Del resto sotto lo stendardo del cambiamento corrono anche aggregazioni non certo di primo pelo, come quelle del “tecnico a tempo” Mario Monti che diventa alfiere del riformismo insieme a Casini e Fini o del “pensionato” Berlusconi che ridiscende per la quarta volta in campo, stavolta contro l’ex premier di cui è stato a lungo sponsor in Italia e in Europa. O ancora degli ex-dipietristi presenti nelle seconde file di schieramenti molto distanti tra loro (dai democristiani di Tabacci ai comunisti di Ingoia, quest’ultimi testimoni del matrimonio tra Di Pietro e Ferrero), o ancora di Giannino, personaggio che entra ed esce da anni nei Palazzi del potere. Poi c’è il dogma a sinistra: l’alleanza di Sel con il Pd si sfascerà quando sarà chiaro che il partito di Bersani andrà al governo con Monti?
Il quadro, a pochi giorni dal voto, conferma soprattutto un’amara realtà: il grave stato di sofferenza per la nostra democrazia e il ripudio della politica nel suo significato nobile, vittima di un esteso disamore e di una diffusa rassegnazione alla ghettizzazione della ragione.