Tra economisti e trader circola un vecchio adagio secondo il quale il primo amore e i tassi di cambio provocano il maggior numero di cuori infranti. A giudicare dall’intensità delle polemiche che rimbalzano tra Pechino, Washington, Francoforte e Tokyo, negli ultimi tempi i tassi di cambio hanno preso il soppravvento. E appaiono destinati a mantenerlo per un pezzo perché il dollaro sembra sostanzialmente alla deriva tra le ondate di liquidità che la Federal Reserve ha già sollevato e si appresta ad intensificare nel disperato tentativo di rivitalizzare un’economia allo stremo.
Questa crisi del dollaro deriva da cause strutturali profonde. Oggi il sistema monetario internazionale è un ibrido di cambi semi-fissi (in primo luogo tra dollaro e yuan) e cambi flessibili, che lo rendono inerentemente instabile. Inoltre, il cambio fisso mantenuto unilateralmente dai cinesi si intreccia con ferrei controlli ai movimenti di capitali verso l’impero di mezzo e la non piena convertibilità dello yuan. In parole povere, la seconda economia del pianeta gioca a rimpiattino con i mercati: beneficia del libero scambio di beni ma si rifiuta di aprirsi ai movimenti finanziari.
Questa situazione chiama in causa un altro aspetto di cui si parla raramente. Affinché il dollaro rimanga la moneta predominante per gli scambi internazionali, gli Stati Uniti devono mantenere un deficit di parte corrente e di conseguenza accumulare debito estero, altrimenti non vi sarebbero abbastanza dollari in circolazione nel mondo. Fintanto che l’economia e i mercati americani dominavano l’economia mondiale questo debito estero era sostenibile. Da un decennio il peso relativo dell’economia americana si è ridotto drasticamente mentre il volume del commercio mondiale e dei movimenti internazionali di capitali è esploso. Pertanto il debito estero necessario a mantenere il ruolo internazionale del dollaro sta diventando insostenibile perchè gli interessi da pagare esplodono.In definitiva ci sono due esigenze contrapposte e irriconciliabili: il riequilibrio del deficit commerciale americano e il mantenimento della liquidità nel sistema monetario internazionale. Per venire a capo di questo dilemma bisognerebbe che altre valute oltre al dollaro vengano usate negli scambi internazionali, ma l’euro, che ha fatto qualche passo in avanti in tal senso, ha le ali tarpate da un mercato finanziario frammentato, mentre lo yen può contribuire solo in minima parte perché il Giappone ha anch’esso un surplus di bilancia di pagamenti. Quindi la palla rimbalza nella metà campo cinese dove però la squadra fa melina.Le autorità cinesi hanno resistito per anni a questa soluzione per motivi non sempre troppo chiari. I vertici della banca centrale cinese in privato dichiarano di condividere l’analisi e la necessità di rivalutare e liberalizzare i mercati dei capitali. Identico messaggio viene anche dall’accademia e da alcune istituzioni finanziarie. Ma i politici (la Cina è un’oligarchia in cui le decisioni strategiche vengono prese da meno di dieci persone) hanno concesso solo qualche piccolo aggiustamento e insistono che il processo debba essere molto graduale.
Questo atteggiamento fa pensare che le grandi lobby degli esportatori minacciano di chiudere le fabbriche se il cambio si rivaluta oppure che in fondo ai cinesi non dispiace accumulare riserve senza precedenti che permettono loro di esercitare un’influenza determinante a livello globale. Con questi capitali il governo cinese è diventato il maggior creditore degli Usa, ma sta guadagnando influenza in tutti i paesi emergenti dall’Africa al Brasile, dal Medio Oriente al Sud-Est asiatico.
Questa gestione “politica” del cambio rischia però di finire molto male per tutti. È già in atto una gara di svalutazioni iniziata dai giapponesi con l’intervento della Banca centrale sui mercati e proseguita dagli Americani con il quantitative easing, che tradotto in termini semplici significa stampare moneta per tappare i buchi della spesa pubblica, pompare inflazione e nell’immediato indebolire il cambio. In particolare cinesi e giapponesi rischiano di trovarsi in mano carta straccia qualora questo gioco dovesse sfuggire di mano. Ma non è finita. Siccome non è possibile che tutte le monete si svalutino simultaneamente, i governi delle economie che si ritroveranno con le valute apprezzate dovranno fronteggiare richieste protezionistiche. Riemerge lo spettro delle svalutazoni competitive e delle guerre commerciali che devastarono le economie sviluppate dopo il 1929. E proprio l’Europa, dove l’euro si impenna, le proteste montano e le economie periferiche traballano sotto il peso dei debiti, e i Tremonti fanno i maître a penser, potrebbe rivelarsi l’epicentro di questo fenomeno.Per questi motivi è fondamentale che all’incontro del G20 si affronti con decisione questo capitolo. Fa ben sperare che nella bozza di comunicato finale fatta trapelare alle agenzie di stampa tutti i paesi si impegnano esplicitamente ad “astenersi da svalutazioni competitive”.
Finora il G20 ha rappresentato poco più di un convivio dove scambiare, più o meno educatamente, opinioni e pii desideri. Se iniziasse proprio dai cambi a imporre un minimo di raziocinio nei rapporti economici internazionali si creerebbe un robusto freno alla caduta lungo una china pericolosamente ripida.
(Fabio Scacciavillani – 23 ottobre 2010)
Il Fatto Quotidiano e Forche Caudine
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