Che esista la bellezza è un assioma.
Non risulta facile definirla perché la sua rivelazione è sicuramente in relazione al gusto e alle esperienze personali, ma certamente il suo significato per la nostra vita è eccezionale.
Probabilmente proprio la sua forza ci induce a pensare che, nonostante la bruttura, il dolore, il male, noi abbiamo dentro un enorme istinto di sopravvivenza che ci tiene legati alla vita, alla realtà, alle persone e agli affetti.
A tale proposito il pittore impressionista Pierre-Auguste Renoir scrive che il dolore passa, ma la bellezza resta sempre.
L’umanità sin dalle origini si è sempre rapportata con tale concetto.
Ne parla Saffo in un verso indirizzato alla luna, la Bibbia nel Cantico dei Cantici, Francesco d’Assisi nel Cantico delle creature, solo per fare qualche esempio.
La bellezza nel mondo greco e romano era così importante che si è sentita la necessità di costruirne un simbolo religioso nella dea Venere.
La filosofia ne ha sempre discettato lungamente.
Per Aristotele e Platone il bello è il vero perché è via per la verità e la trascendenza, mentre Tommaso d’Aquino lo definisce un attributo dell’essere e un dono di Dio.
Kant nella Critica del Giudizio introduce profonde novità sulla natura della valutazione estetica collegandola al gusto ma in maniera intuitiva, disinteressata, non utilitaristica né finalizzata.
La ricerca filosofica e scientifica si è a lungo interrogata sull’essenza della bellezza.
Le scuole di pensiero sono fondamentalmente tre.
Una prima, riferibile al pensiero classico sin da Parmenide ma anche a neuroscienziati contemporanei come Semir Zeki, la vede nelle qualità effettivamente esistenti nel reale e dunque con una radice oggettiva; una seconda, definita relativista e che va da David Hume fino ad Umberto Eco nell’opera Storia della bellezza, la immagina come una percezione soggettiva e personale della realtà e dei suoi aspetti in relazione a principi e canoni culturali non necessariamente né sempre condivisi; una terza infine è quella che fa capo a Lev Nikolàevic Toltoj e che ne considera ancora enigmatico e indefinibile il concetto.
In buona sostanza la discussione è incentrata sulla questione relativa a una dimensione della bellezza preesistente alla soggettività o riguardante al contrario una convenzione sociale in funzione della cultura e dei valori del tempo.
In effetti la bellezza, come sostiene il filosofo e teologo Vito Mancuso nel suo recentissimo saggio “La via della bellezza” edito da Garzanti, mentre sembra rivelarsi in una sua universalità nella natura, non lo è alla stessa maniera nell’essere umano, ma specialmente nelle arti e nella musica dove le distinzioni di percezione possono essere alquanto diversificate soprattutto quando, invece che cercare di sublimare la realtà, si lascia prevalere la voglia di dissacrare, di scandalizzare e di sbalordire.
Quando una forma espressiva si allontana dal bello per comunicare idee, immagini o suoni talora incomprensibili, è davvero difficile interpretarne il senso.
È chiaro che, se non ci disponiamo ad osservare, a sentire, ad entrare in relazione e a percepire con i sensi e il sentimento la realtà, il cosmo e tutto ciò che l’umanità produce, la bellezza non potrà manifestarsi e dunque non ci sarà alcuna esperienza estetica.
In tale processo psicologico e intellettivo di percezione attraverso l’emotività riusciamo ad andare oltre il reale attraverso quell’esperienza del sublime, così ben delineata da Kant nella Critica del giudizio, che è in grado di portarci perfino al godimento estatico, ma anche di farci capire che la bellezza è un aspetto importante ma non il fine della nostra esistenza.
Considerando che talora il concetto di bellezza non è stato sempre associato al bene, come è avvenuto ad esempio con le idee di Baudelaire e dei cosiddetti poeti maledetti o ancora nelle degenerazioni naziste e nella follia dei movimenti terroristici contemporanei che sono arrivati perfino a distruggere stupende opere d’arte nel Medio Oriente, fa bene Mancuso a rimarcare a pagina 87 del volume sopra citato che il farsi del mondo dipende da tendenze e processi di aggregazione in cui nell’antinomia della vita tra logos e caos noi abbiamo la necessità di far prevalere una mentalità creativa di rapporto positivo tra bellezza, verità e bene perché “quando questo avviene a livello di vita sociale si ha l’esperienza denominata etica e quando avviene nella relazione con la natura e con l’arte si ha l’esperienza di vita denominata estetica”.
In molte civiltà la bellezza è stata sempre associata ad un altro aspetto fondamentale della vita: la bontà.
Anche quella legata alla persona ha avuto peculiarità legate al viso, all’intero corpo, al modo di vestirsi e di atteggiarsi, all’intelligenza, alla coscienza, alla sensibilità, al pensiero, allo stile di vita, ad una certa naturalità che non hanno mai preteso di raggiungere la perfezione nella consapevolezza del limite che esiste in ogni essere umano.
Stiamo parlando di una bellezza che non è solo nel corpo, ma della personalità rappresentata anche da qualità immateriali o spirituali che dir si voglia e che riguardano la sensibilità, la dolcezza, l’avvenenza, la disponibilità, la capacità di relazionarsi uscendo dall’ego per andare verso l’altro ed il noi.
In una società liquida, come la definisce Zygmunt Bauman, seguendo le logiche di una pubblicità effimera legata al mercato del consumismo e del superfluo, noi perfino rispetto ad un elemento della vita come la bellezza stiamo rincorrendo la banalità fino alla ricerca di mondi fittizi nello sballo e nella sregolatezza o ad aspetti davvero grotteschi quali taluni realizzati dalla chirurgia estetica.
Seguiamo l’aspetto fisico e le apparenze spesso alla ricerca unicamente di ciò che può metterci in evidenza, dimenticando che il nostro fisico non può essere eternamente giovane ed esponendoci, senza curare gli altri aspetti della vita, alla convenzionalità e ad un’obsolescenza sicuramente peggiore di quella naturale.
Arriviamo così a forme di narcisismo irrazionale costruite attraverso modi stravaganti di porsi, di abbigliarsi o di truccarsi che talora rasentano il ridicolo.
Il fascino non si trasmette con simili mezzi, ma attraverso la seduzione di una personalità autentica e originale piena di grazia, di eleganza e di delicatezza.
Quando poi con violenza distruggiamo l’ambiente, il territorio, perfino gli esseri umani e qualsiasi altra sorgente di bellezza per puro scopo di lucro, noi perdiamo qualsiasi attitudine nel ricercarla e custodirla incapaci ormai di coglierne il valore pensando che quest’ultimo risieda solo nella ricchezza materiale del dio denaro.
Se allora la bellezza non è solo incanto per l’apparenza, ma capacità di godere tutti gli elementi essenziali della vita, essa, come sostiene ancora Vito Mancuso, è una via, certo non unica ma importante, per giungere il più possibile verso la verità della vita in cui, aggiungiamo noi, occorre entrare lavorando per quel bene comune che deve realizzarsi appunto nella bontà, nell’onestà, nella giustizia sociale, nell’armonia e nella condivisione.
(Umberto Berardo – 4 febbraio 2019)
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