Il World Economic Forum di Davos è una specie di supermercato sui cui scaffali si affastella la mercanzia (e talora il ciarpame) del conformismo à la page.
Prima della crisi del 2008 l’Uomo di Davos era la pregiata incarnazione della globalizzazione, ircocefalo di finanza e multinazionali, cosmopolita sobriamente progressista, mediaticamente accattivante, con malcelate ambizioni da maȋtre à penser ed esibite aspirazioni da guru futurologo con venature sociologiche.
L’edizione 2009, invece, mise in scena una danza macabra sul relitto di Lehman Brothers tra chi preconizzava l’implosione del capitalismo, il risorgere del marxismo, il crollo dell’Occidente o un piu’ prosaico decurtamento del bonus. Tra alti lai e petti percossi, l’Uomo di Davos per gli indignados globali trasfigurò nell’Esecrabile Gnomo affamatore. Sul palcoscenico mediatico gli chalet svizzeri furono sostituiti dalle tende di Occupy Wall Street.
In seguito, sull’onda degli aiuti di Stato ai falliti e della certezza di impunità per i lestofanti (e i regolatori), a Davos tornarono in auge le insulsaggini du jour frullate dagli uffici stampa e dalle agenzie di PR.
Quest’anno, grazie all’economia globale in solida ripresa, Davos ha ritrovato antichi fasti e ampio ottimismo con la nutrita presenza dei maggiori Capi di Stato dell’Europa (Macron e Merkel su tutti) e dei grandi paesi emergenti, come Modi, Temer e Macri. Ma il clou è stato il discorso di Trump, preceduto dall’introduzione, politicamente urticante, di forti dazi su lavatrici e pannelli solari.
Da 20 anni un Presidente Usa non partecipava alla kermesse e l’irruzione del Populist in Chief nelle cerimonie mondialiste preconizzava un contrasto stridente. Ma in realtà è improprio appiccicare l’etichetta populista a Trump, che infatti a Davos ha espresso più che altro una visione dagli echi distintamente reaganiani. The Donald ha inizialmente blandito sia il suo elettorato che la platea rivendicando i successi del suo primo anno, dalla disoccupazione ai minimi alla sequenza di record in Borsa, dall’ottimismo delle imprese alla riforma fiscale. Ascrivendosi il merito di aver fatto riemergere un’America competitiva, ha invitato gli imprenditori ad investire negli States promettendo ripetutamente uno tsunami di deregulation. Proprio l’enfasi sui mali della burocrazia, che proditoriamente distrugge l’innovazione e vessa le imprese, la promessa di obliterare in modo aggressivo lacci e lacciuoli, l’impegno a responsabilizzare i burocrati, ha indubbiamente fatto scattare negli astanti il richiamo della foresta reaganiana. Persino lo slogan populista, America First, è stato declinato da Trump in un’accezione globalista quando ha rivendicato che un’America prospera genera prosperitè, lavoro e innovazione per tutto il mondo. A questo punto Trump ha eseguito un po’ goffamente il suo numero di acrobazia retorica sul protezionismo. A Davos una mezza dozzina di primi ministri, da Trudeau a Modi, da Merkel a Macron, avevano direttamente o indirettamente lanciato strali verso la Casa Bianca su questo tema, e magnificato l’approccio multilaterale ai temi globali.
Trump ha ribattuto che la sua amministrazione non ripudia il libero scambio, ma intende assicurare un commercio internazionale equo (fair) oltre che libero e il reciproco rispetto degli impegni. In sostanza, su pratiche predatorie, sussidi statali, furto di proprietà intellettuale e abusi assortiti il governo americano non chiuderà gli occhi ed è determinato a proteggere gli interessi dei produttori nazionali. Insomma il libero scambio non deve generare risultati asimmettrici. In quest’ottica Trump preferisce ricorrere a trattati commerciali bilaterali o con piccoli gruppi di paesi (un approccio obsoleto e farraginoso che mina le istituzioni internazionali, in specie il Wto). Sulle poltrone molti avranno storto la bocca e l’asserzione di Trump che il mondo progredisca quando nazioni sovrane si uniscono per un obiettivo comune difficilmente ha fatto breccia nell’uditorio.
Infine, con la sicumera del venditore, l’ex palazzinaro ha esaltato le luminose prospettive di un’America che tornata a ruggire, forte delle sue università, della sua ricerca, dei suoi lavoratori, dell’energia abbondante libera dai vincoli ambientali. La costernazione suscitata dall’elezione di Trump nell’Uomo di Davos, dopo le fiammate a Wall Street e la riforma fiscale, è quasi svanita, ma nonostante la gradita performance di ieri, un alone di diffidenza permane.
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