Quale sicurezza?



Non c’è giorno in cui l’informazione, partendo da episodi di cronaca nera e da interviste parallele, non ponga all’attenzione comune continui dati sulla problematicità dell’esistenza umana che ovviamente provocano inquietudine e paura.
L’angoscia e la necessità di una fuga dall’ansia generano una sorta di industria della sicurezza cui, come sempre, accedono soggetti benestanti alla ricerca dell’incolumità, della salute e del benessere.
Proviamo a fare un po’ di chiarezza sulla questione che da molti è spesso banalizzata e ridotta di solito alla difesa dalla criminalità del singolo o da quella organizzata.
Sigmund Freud in “Il disagio della civiltà” sostiene che la sofferenza umana deriva da tre fonti: “la soverchiante forza della natura, la fragilità del nostro corpo e l’inadeguatezza delle istituzioni che regolano le relazioni degli uomini nella famiglia, nello Stato e nella società”.
L’attacco alla serenità dell’esistenza può, dunque, venire da forze esterne della natura, da fragilità della nostra costituzione fisica, ma anche da strutture di relazioni sociali ingiuste e perciò discriminanti.
Tutti diventiamo insicuri quando siamo colpiti da fenomeni catastrofici della natura, da malattie o da altra sofferenza generata dagli uomini.
La violenza allora non ha un’origine univoca.
Ce n’è una, di tipo soggettivo, causata da questioni psichiche, disfunzioni mentali o disagio sociale; esiste quella generata dalla criminalità comune o dalla malavita organizzata; c’è ancora quella derivante dalla struttura economica che produce disuguaglianza, emarginazione, povertà, alienazione, solitudine, disperazione e sempre più spesso morti bianche o suicidi, come a Seveso, alla Thyssen o all’Ilva; ne abbiamo pure una di tipo politico che, esercitata da un potere non più controllato democraticamente, provoca soggezione, asservimento, sottomissione, sudditanza e, come sostiene Noam Chomsky nel suo ultimo saggio “Sistemi d potere”, in ultima analisi “schiavitù mentale”.
Il potere oggi ignora volutamente la complessità del fenomeno della violenza e ne amplifica solo taluni aspetti deviando l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi reali, spostandola su cose superficiali, questioni secondarie o del tutto settoriali attraverso la colossale macchina propagandistica dei mass-media o dei social network.
La violenza è sempre deprecabile e non può essere valutata né in termini di genere, né sulla quantità delle percentuali dei dati statistici, ma non si può amplificare la notizia di un omicidio, sia pure dalle connotazioni molto raccapriccianti, dimenticando i morti nelle guerre, nelle azioni terroristiche o quelli per fame o per mancanza di cure mediche.
L’attentato alla vita di una persona è comunque e sempre il male più grave che si possa mettere in atto all’interno della convivenza umana, perché chi lo commette riduce l’altro a un “oggetto”, una “cosa” di sua proprietà.
Paradossalmente riusciamo a controllare di più la violenza della natura e delle malattie e pochissimo quella derivante dalle relazioni umane e sociali, perché quest’ultima affonda le radici in un individualismo esasperato che non è più disponibile alla solidarietà. È allora che il potere sostituisce l’affetto perfino all’interno della famiglia, dove la violenza è di solito nascosta, ma non per questo meno pesante delle altre.
Quando gli stessi diritti alla difesa dell’incolumità personale, del benessere psicofisico e della felicità non sono più riconosciuti uguali per tutti, nascono la disuguaglianza e l’incapacità a riconoscere e rispettare la dignità dell’altro.
Il potere politico degli Stati e quello ancora più deleterio della concentrazione dei capitali e del mondo finanziario, in sistemi in cui la corruzione la fa da padrone, hanno acuito l’ineguaglianza tra gli esseri umani ed è chiaro che, quando si mette al di sopra di tutto “se stessi” e si distrugge il “noi”, viene meno la condivisione dei beni di questa Terra.
Allora finisce l’amore e si fa strada “l’homo homini lupus” di hobbesiana memoria.
C’è in conclusione un modo per rendere l’esistenza meno pericolosa e precaria?
Noi pensiamo sicuramente che esista.
Pari opportunità, equa distribuzione del lavoro e della ricchezza, solidarietà e rispetto sacrale per l’altro, soprattutto quando è più debole e bisognoso, sono i termini per affrontare il problema della violenza intorno a noi e trovare soluzioni.
Ancora una volta, tuttavia, la strada non è quella della proclamazione di principi e valori, ma la loro testimonianza attraverso stili di vita credibili e coinvolgenti.
Così torneremo a educare alla pace, intesa non come assenza di guerre o di violenza, ma in termini di presenza di condizioni positive per una vita serena e felice per tutti.
Lo faremo, speriamo, attingendo a esempi di uomini e donne giusti e pacifici e non, come avviene spesso nell’informazione, presentando ossessivamente episodi di violenza senza alcuna riflessione sulle cause e sulle modalità di superamento della stessa.
Diciamo questo nella convinzione profonda che una società fondata sulla non violenza si costruisce certo con l’informazione, ma anche e soprattutto con tanta, tantissima educazione.

(Umberto Berardo – 16 giugno 2013)

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