Casa: valorizzazione o svendita?



Con la finanziaria di mezza estate approvata dal parlamento (legge del decreto legge 112/2008, legge di conversione 133/2008) sotto il titolo “misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico” (articolo 13), il governo propone un piano di alienazione, o meglio di svendita, di quel patrimonio. Se questa previsione dovesse realizzarsi sparirebbe il patrimonio di edilizia residenziale pubblica necessario per dare una risposta a chi non potrà mai soddisfare la propria domanda di casa rivolgendosi al mercato e produrrebbe incomprensibili iniquità. Le nuove norme affidano ad accordi tra gli i Ministri dei trasporti e infrastrutture e per i rapporti con le regioni, da un lato, e le regioni e gli enti locali, dall’altro, la definizione delle procedure per la vendita degli alloggi pubblici. Gli accordi dovrebbero rispettare questi requisiti: a) i prezzi di vendita dei singoli alloggi devono essere proporzionati ai canoni pagati dai rispettivi assegnatari in locazione; b) agli assegnatari, che non siano già in possesso di un’altra abitazione e morosi nel pagamento del canone, è riconosciuto un diritto di opzione all’acquisto; c) i proventi delle alienazioni devono essere impiegati per finanziare interventi per alleviare il disagio abitativo. Proprietari degli alloggi sono gli istituti autonomi case popolari, nella gran parte dei casi, e gli enti locali, in qualche regione. Non sono mai le amministrazioni statali. Il governo promuove, quindi, l’alienazione di un patrimonio che non è suo e regolamenta una materia sulla quale la corte costituzionale ha già ritenuto illegittimo l’intervento dello stato. Occorre ricordare, infatti, che l’articolo 13 del D.L. 112/2008 ha la stessa struttura ed anche gli stessi contenuti dei commi 597-598 della legge 266/2005 (legge finanziaria per 2006, approvata dal precedente governo Berlusconi), dichiaratati illegittimi dalla corte costituzionale con la sentenza 94/2007. E occorre anche ricordare che molte regioni hanno già regolamentato l’eventuale vendita di alloggi pubblici, stabilendo condizioni che sono molto più eque ed efficaci di quelle previste dal governo. La finalità dell’alienazione del patrimonio di alloggi pubblici, dovrebbe “favorire il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi” (articolo 13, comma 1). Verosimilmente si pensa di perseguire questo obiettivo costruendo nuovi alloggi con i proventi delle alienazioni (il criterio c degli accordi). Ma quella che viene proposta, solo in misura molto contenuta può essere considerata una misura di politica per la casa con cui contribuire a risolvere i problemi dei soggetti in condizione di disagio abitativo di origine economica generato dall’inadeguatezza dei loro redditi a sostenere i prezzi di mercato dei contratti di locazione o vendita. La proposta ha, però, una indubbia impronta politica, che evoca la parola d’ordine della ownership society, lanciata nella seconda campagna elettorale di Bush, che però non gli portato molta fortuna. Essa va incontro all’aspirazione della gente a diventare proprietari della casa, per ragioni simboliche e materiali. In questo caso, però, la diffusione della proprietà non aiuta a restringere l’area del fabbisogno abitativo, come, invece avviane, con i programmi di edilizia agevolata che incentivano l’acquisto della prima abitazione in proprietà da parte di famiglie che non hanno ancora potuto soddisfare la loro domanda di servizi abitativi. Il piano di alienazione che il governo intende realizzare si rivolge, infatti, a soggetti ai quali le politiche di welfare nel settore della casa hanno già risolto il problema; nella stragrande maggioranza dei casi in maniera definitiva, poiché sono rari quelli in cui l’inquilino di un alloggio pubblico decade dall’assegnazione. L’attenzione è rivolta agli “inclusi”, che il problema della casa lo hanno già risolto, piuttosto che agli “esclusi”, che da soli non hanno i mezzi per risolverlo. Le condizioni di acquisto previste sono talmente vantaggiose per gli inquilini che di fatto essi beneficiano di una di prestazione agevolata che si aggiunge a quella consistente nel pagamento fino a quel momento di canoni molto al di sotto di quelli di mercati. La previsione di determinare il prezzo di vendita di ogni alloggio in “proporzionale al canone” pagato dal suo inquilino, rischia di rendere i risultati del piano economicamente risibili. Questo meccanismo di determinazione è tra i più iniqui ed anche il meno efficace, ai fini della valorizzazione economica del patrimonio e del soddisfacimento del fabbisogno abitativo. I canoni degli alloggi sono determinati, sulla base delle normative delle singole regioni, considerando anche il reddito di ogni singolo assegnatario. Se non è proprio proporzionale al reddito, il canone è comunque da esso influenzato. Ad alloggi aventi le stesse caratteristiche possono essere, pertanto, applicati canoni diversi. Di conseguenza due alloggi aventi esattamente le stesse caratteristiche potranno avere prezzi di vendita anche molto differenti l’uno dall’altro e due soggetti con lo stesso reddito possono diventare proprietari dei rispettivi alloggi aventi valori di mercato diversi l’uno dall’altro. I canoni sono in genere molto bassi, a livello nazionale in media intorno ai 1.000 euro all’anno. Il decreto non lo specifica, ma, verosimilmente, il prezzo di vendita dovrà essere un multiplo del canone. Per valutare gli effetti del meccanismo, ipotizziamo che sia un multiplo molto alto, per esempio 40 . Chi paga un canone annuo di 1.000 euro potrà acquistare l’appartamento per 40 mila euro. Detto diversamente si può ipotizzare che il prezzo di vendita dell’alloggio sia pari all’importo corrispondente a 40 anni di canoni. Questo numero di anni è già molto elevato: per chi paga canoni tanto bassi, più si eleva il numero di anni e meno conveniente, sul versante finanziario, diviene acquistare l’alloggio. Se questo prezzo fosse “ammortizzato” pagando mensilmente il canone attuale, la “valorizzazione” sarebbe nulla o molto ridotta, poiché si otterrebbero dei ricavi di ammontare e con profili temporali simili a quelli dei canoni. In questo caso, se si vendessero proprio tutti gli alloggi, si potrebbe, in via ipotetica, ottenere un risparmio pari alle spese di gestione degli alloggi stessi (e quindi alle spese di funzionamento degli Iacp o delle strutture che ora svolgono questa funzione, e che in seguito non avrebbero più ragione di esistere). Questo in via teorica: di fatto non sarebbe così, a meno di non licenziare il personale addetto a tale compito. Se l’intero prezzo fosse pagato in un’unica soluzione, al momento del trasferimento della proprietà dell’alloggio, per ottenere le risorse necessarie alla costruzione di un nuovo appartamento occorrerebbe venderne almeno 4 o 5 dei vecchi. Questo risultato, sebbene contenuto, non è, tuttavia, assicurato. Va infatti osservato che qualora fosse attribuito ai singoli assegnatari la facoltà di acquistare o meno gli alloggi abitati (e, d’altra parte, a nessuno di essi può essere imposto di acquistare), una parte degli alloggi posti in vendita potrebbe non essere acquistata. Si creerebbero così “condomini misti”: una parte degli alloggi continuerebbe ad essere di proprietà pubblica ed una parte sarebbe di singoli privati (come insegna l’esperienza dei precedenti piani di alienazione ex legge 560/93). Nei casi in cui questi ultimi detengono la maggioranza delle quote condominiali, potrebbero procedere a ristrutturazioni delle parti comuni degli immobili, alle spese per quali il proprietario pubblico non può sottrarsi. È allora molto probabile che una parte rilevante dei proventi delle vendite debba essere investita non per la realizzazione di nuovi alloggi, ma per ristrutturare quelli di cui il settore pubblico ha conservato il possesso. Con la conseguenza che potrebbero anche evaporare del tutto le risorse per nuovi appartamenti.
(Raffaele Langarella – Eddyburg – gennaio 2009)

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