Abbiamo avuto il nomadismo, piccole comunità autogestite, città-stato, regni, imperi, stati dittatoriali e democratici, unioni sovranazionali.
Dentro tali strutture ovviamente le difficoltà maggiori per i diritti umani sono venute soprattutto dalla gestione totalitaria del potere, dalle guerre e dal colonialismo.
La configurazione degli attuali Stati nel mondo, soprattutto quando non è stata una scelta autonoma, ma determinata da trattati postbellici o peggio ancora da decisioni verticistiche del potere o da guerre di occupazione, ha creato spesso tensioni esterne e frizioni interne che tuttora rendono difficile la convivenza dei cittadini.
La Carta delle Nazioni Unite al Capitolo I, dedicato ai fini e principi dell’Organizzazione, articolo 1, paragrafo 2, individua come fine dell’ONU quello di “Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-determinazione dei popoli…”.
Il diritto all’autodeterminazione è stato successivamente sancito con il “Patto internazionale sui diritti civili e politici” del 1966 , con una Sentenza della Corte Suprema del Canada dello stesso anno e con il Patto di Helsinki del 1975.
Intanto è difficile parlare di autodeterminazione di un popolo se questo non è riconosciuto come soggettività giuridica non essendoci in tal senso nessuna norma chiara a livello di diritto internazionale.
Tra l’altro il principio di autodecisione negli atti sopra citati sembra avere un campo di applicazione limitato ad etnie cui sono negati diritti fondamentali, ex colonie e popoli soggetti a regimi razzisti o a dominio militare straniero.
In molte circostanze nel riconoscimento del diritto all’autodeterminazione si è giocato sull’ambiguità per cui talora si è fatto ricorso a forme di consultazione delle popolazioni, come nei plebisciti tenuti nei territori occupati dal Piemonte o nella Prussia orientale, ad accordi pacifici tra le parti in causa, come tra Cechi e Slovacchi, mentre a volte le decisioni sono state di vertice e sono passate sulla testa di popolazioni che, pur di diversa nazionalità, sono state inserite in Stati di cui non si sono sentite parte, come nel caso dei Tirolesi o degli Istriani.
Dopo la seconda guerra mondiale si è tentato di articolare politicamente la pacifica convivenza di popoli all’interno degli Stati e nelle relazioni internazionali.
Si sono avuti, invece, lo sappiamo bene, casi di indipendentismo nella penisola balcanica sollevati ad arte per puri motivi di neocolonialismo commerciale e finanziario che hanno tra l’altro determinato vere e proprie carneficine.
In questi giorni si discute molto di autodeterminazione in relazioni agli eventi di Catalogna in cui una parte della popolazione ha organizzato domenica 1° ottobre un referendum per acquisire l’indipendenza dalla Spagna.
Intanto a nostro avviso è indiscutibile che una popolazione abbia tutto il diritto di rivendicare la propria indipendenza nel caso in cui lo Stato nel quale è inserita non ne garantisca i diritti fondamentali; ci sono però circostanze in cui tale condizione si reclama per motivi di carattere economico legati a forme di egoismo soggettivo o di gruppo derivanti da errate posizioni concernenti i sistemi fiscali ed alla redistribuzione delle entrate relative.
In Europa tale seconda ipotesi si sta diffondendo a macchia d’olio e rischia di creare problemi seri alla convivenza.
Ne abbiamo esempi anche in Italia dove la Lega gioca sull’indeterminatezza dei concetti di autonomia ed indipendenza rivendicando una maggiore redistribuzione locale delle entrate fiscali sui territori che ne garantiscono un maggiore gettito.
Il 22 ottobre si terrà in Veneto e Lombardia un referendum consultivo per richiedere in tal senso forme di autonomia innovative.
A chi imposta tali forme di rivendicazioni occorrerebbe ricordare che le aziende con sede sociale in una regione si sono costituite lì grazie ai proventi di uno Stato che spesso ha profuso investimenti pubblici guardando agli interessi generali dell’intera popolazione nazionale e non a quella delle singole regioni; sarebbe necessario rammentare anche che le imprese di una regione riescono ad avere profitti grazie alla solidarietà negli investimenti, nell’impegno lavorativo e nelle vendite che derivano da tutta la comunità delle altre regioni.
Tra l’altro sottolineiamo come l’art. 116 della Costituzione Italiana prevede che “forme e condizioni particolari di autonomia” possono essere attribuite alle Regioni solo con legge dello Stato.
Per tornare al tema generale dell’autodeterminazione sul piano strettamente giuridico desideriamo ricordare come solo la carta costituzionale etiopica prevede la possibilità di una secessione unilaterale di parti della popolazione; altrove, come in Gran Bretagna, è possibile attraverso un referendum riconosciuto dall’interezza dello Stato, mentre le Costituzioni spagnola e italiana non consentono nulla di simile, ma solo forme di autonomia.
A livello internazionale poi non esiste alcuna norma obbligante altri Stati all’accettazione di un caso di secessione; una minoranza può pertanto proclamare anche in modo unilaterale la propria indipendenza, ma non diventa per ciò stesso uno Stato se non ottiene in tal senso un riconoscimento esterno soprattutto da comunità sovranazionali.
In aree diverse di uno Stato ci possono anche essere questioni irrisolte che creano ostacoli alla convivenza nazionale come una maggiore diffusione della corruzione o dell’illegalità, scarsa cultura dell’iniziativa imprenditoriale, diversa velocità nei percorsi di sviluppo economico, ma si tratta di problemi che vanno risolti sul piano culturale e politico e non certo attraverso secessioni che producono difficoltà enormi alle popolazioni a livello economico, ma anche nelle relazioni umane e sociali.
Proprio in considerazione di tali risvolti negativi di una secessione, il titolo all’autodeterminazione viene in genere riconosciuto ove un gruppo identitario infrastatuale si veda negati diritti umani fondamentali o quello ad una rappresentanza reale nelle decisioni collettive ed in ogni caso va contemperato con il diritto di uno stato all’integrità territoriale ed ai confini riconosciuti.
La mappa dell’indipendentismo in Europa è molto estesa, ma è certo che non possiamo inseguire la competizione per le risorse che alimenta talora forme di secessione che creano frammentazioni di cui è difficile capire il senso e l’evoluzione.
È altrettanto chiaro, a nostro avviso, che l’80,2% dei due milioni di votanti su 5,4 milioni di aventi diritto come in Catalogna è difficilmente un dato rappresentativo democratico della reale volontà del popolo interessato.
Vorremmo anche aggiungere che i popoli, oltre a liberarsi dai limiti amministrativi degli Stati in cui sono inseriti, forse devono cercare anzitutto un’indipendenza dal potere finanziario che, con i meccanismi perversi del debito e del fiscal compact propri del più spregiudicato neoliberismo, rischia di compromettere seriamente la libertà economica e politica dei cittadini perfino all’interno di istituzioni in cui i concetti di uguaglianza e di condivisione non riescono a farsi strada.
In un’epoca di globalizzazione e di trasnazionalizzazione, allora, occorre forse pensare a nuove forme di statualità indipendenti e non armate con processi di federalizzazione solidaristica al loro interno ed un inserimento nel sistema delle Unioni Transnazionali e delle Nazioni Unite in cui però va profondamente rivisto il piano della struttura in una nuova forma di partecipazione democratica paritaria di tutti i suoi membri.
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