Israele e Palestina, tra sionismo e nakba



Le cronache di guerra sono tutte uguali. Macerie, corpi maciullati, obitori sovraffollati, lutti. E funesti numeri, amaramente aggiornati. Ma non c’è termometro per misurarne l’intensità. Né lavagne per distinguere buoni e cattivi. Prevenzione e reazione, strategia e terrorismo, cause e conseguenze affondano lunghe e intrecciate radici.
Il dramma va in scena a Gaza. Favela e prigione a cielo aperto per un milione e mezzo di palestinesi. Regno dei posti di blocco, barriere alle sacrosante libertà individuali. Perché i teatri di guerra sono sempre catini sovraffollati di oppressori e di vittime. Che sopravvivono ogni giorno, tra la povertà e la possibilità di un tragico finale d’esistenza. E’ l’eterna replica delle carneficine umane nel segno del disprezzo. Di 11 settembre, anche mediatici.
Massacri eclatanti e strumentali, predisposti dai disegni della follia umana. Mai casuali, ma ben pianificati con cinico disprezzo. Guidati da logiche disumane e paradossali.
Il mondo, immerso in riti festaioli di fine anno, assiste inerme e un po’ distratto agli ennesimi bombardamenti “chirurgici e intelligenti” compiuti dal cielo di Rafah. La strenna è offerta da F16 e Apaches di proprietà israeliana. Rinnovano mattanze su territori già lungamente marchiati dal sangue innocente. Israele e Palestina, questione resa meno incomprensibile dalle ricerche di quattro generazioni di studenti che non da sessant’anni di summit delle diplomazie internazionali.
Scorrono le date infauste. La divisione “provvisoria” della Palestina in due parti nel 1948. Un pezzo amministrato dagli ebrei, l’altro dagli arabi. Con la timida regia dell’Onu. La proclamazione dello stato di Israele da parte degli ebrei, sempre nel 1948. Poi i primi morti: l’attacco congiunto di Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Iraq, Libano e Siria all’imperialista Israele. Che invece conquista tutta la Palestina, eccetto la “striscia di Gaza”, sotto controllo egiziano, e la Cisgiordania. Quindi la scomparsa dello stato palestinese e l’esodo di 700mila palestinesi. Anno 1956, ancora turbolenze: lo stato ebraico occupa il Sinai (a seguito della nazionalizzazione del canale di Suez da parte dell’egiziano Nasser). Ma le forze dell’Onu ristabiliscono i vecchi confini. Il 1967 richiama la “Guerra dei sei giorni”: il fulmineo attacco con cui Israele sconfigge egiziani, giordani e siriani, occupando Sinai, Gaza, Cisgiordania e alture del Golan. Vana la risoluzione dell’Onu per la restituzione dei territori occupati. E vano il tentativo di rivincita del 1973, quando Egitto, Giordania e Siria attaccano inutilmente Israele nel giorno dello Yom Kippur (festa ebraica). Scorrono altri decenni insanguinati e svanisce ogni ipotesi di soluzione.
I raid, gli attentati (anche clamorosi, come quello alle Olimpiadi del 1972 che costa la vita a undici atleti israeliani), l’intifada che semina almeno 1.500 morti, i kamikaze, Hezbollah. Ogni mediazione è inutile. Ogni accordo fallisce. Come quello del 1993 a Washington, tra il primo ministro israeliano Rabin (poi assassinato) e il capo dell’Olp Arafat per il reciproco riconoscimento degli stati israeliano palestinese. Una tregua di carta tra due negoziatori non solo con poteri decisamente differenti, ma con opposizioni interne di non poco conto: i coloni israeliani contrari a qualsiasi concessione e gli estremisti palestinesi favorevoli al terrorismo e alla guerriglia. Qualche anno dopo il movimento Hamas, contrario ad Arafat, firma attentati antiebraici che seminano una sessantina di morti.
Ora l’ennesima replica. “Prevedibile” e “preventiva”, come sempre. Caratterizzata da uno strano “diritto all’autodifesa”. Una guerra infinita che rispolvera orrori ed errori. Se fa puntualmente riemergere i sensi di colpa del mondo occidentale per le persecuzioni patite dal popolo ebreo tra evidenti oblii e qualche connivenza, parla anche di diritti umani ripetutamente calpestati e di continue violazione del diritto internazionale compiute da entrambi gli schieramenti. Di fatto, bombardamento dopo bombardamento, si sta accentuando il baratro tra un Occidente in irreversibile crisi, non solo economica, ed un Oriente tenuto a freno dalle spinte fondamentaliste solo dalla correità degli apparati istituzionali, abili nell’evitare catastrofiche e controproducenti destabilizzazioni. Non è causale l’esempio del giornalista iracheno Muntazar al-Zeidi, divenuto eroe di un continente (di uno solo?), con il semplice il lancio delle scarpe al presidente americano Bush.
Su tutto ciò, da una parte i “concretissimi” e gravissimi crimini visibili (o “resi” invisibili). Cioè i mucchi di cadaveri privati anche della dignità umana; gli immancabili bambini, figli di uno dei più alti tassi di natalità al mondo, vittime degli stenti, dell’odio, delle armi. E, per di più, delle strumentalizzazioni. Le macerie, simbolo dello sterminio e dell’annientamento. Dall’altra, le più aleatorie letture delle “strategie oscure” di questa guerra quasi unidirezionale (i razzi Kassam ai ferilizzanti, da notte di San Silvestro, contro la potenza nucleare di Israele), le appassionate ricerche delle connivenze in area egiziana e giordana da una parte, iraniana dall’altra, le analisi delle incognite che turbano la politica, ad iniziare dalla speranza che si rafforzi, a furia di bombe “intelligenti”, il fronte moderato islamico volto ad isolare Hamas e i terroristi. E ancora la selva di giudizi sulla premeditazione dell’aggressione (i “sei mesi di studio” illustrati dal ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, premiati da un’impeccabile azione militare rispetto a quella di due anni addietro), sulle tecniche pre-elettorali, quando mostrare i muscoli paga in società sempre più impermeabili alle questioni umanitarie, sul favore temporale reso a Barack “Hussein” Obama, in servizio solo da metà gennaio, con una patata bollente in meno (ma dovrà comunque mettere mano all’area mediorientale, bacino di grandi interessi economici a stelle e strisce, dopo i disastri compiuti dal suo predecessore). Nei territori aleggiano due spettri: attuare la nakba, la catastrofe, l’estromissione totale del popolo palestinese, idealizzata da tanti israeliani, o cancellare Israele e annientare gli ebrei, obiettivo di tanti fondamentalisti arabi. Due possibili genocidi che solo la più alta diplomazia può fermare.
Il segretario di stato americano, Colin Powell, repubblicano che s’è schierato con Obama, ha lucidamente colto un aspetto essenziale del problema: “Troppi giovani palestinesi sono cresciuti tra posti di blocco, raid e poca dignità”. Di fatto c’è un’emergenza educativa che investe le nuove generazioni di entrambe le etnie. Per attivare un processo di pace occorrerebbe partire da qui. Viceversa, come insegnano sessant’anni di storia del Medio Oriente, nonché le operazioni “umanitarie” compiute in Afganistan e Iraq (e soprattutto un bel po’ di dottrine religiose in tutto il mondo), le armi difficilmente aiutano a trovare la via della pace.

(Pierino Vago)

A Gaza mattanza senza fine

ROMA – Le drammatiche notizie che giungono da Gaza stanno costringendo i tanti organi d’informazione, che finora hanno preferito aprire i telegiornali con le cronache dei saldi negli outlet del Nord Italia rispetto all’analisi obiettiva dello stillicidio quotidiano nel Vicino Oriente, a soffermarsi con maggiori dettagli sulla mattanza in atto in Palestina che finora ha provocato quasi 1.200, di cui almeno 335 bambini. Cinquemila i feriti.
Al di là delle ragioni politiche o della caccia alle responsabilità, le truppe di Israele in pochi giorni sono riuscite a compiere un massacro con pochi precedenti. Una carneficina soprattutto di gente che già soffre – non per colpe proprie – condizioni di quotidiana disperazione. Le spaventose foto della tragedia che circolano su internet, dove corpi orrendamente martoriati e fiumi di sangue innocente riportano la nostra “civiltà” occidentale all’età della pietra, ci ammoniscono su ciò che si sta pericolosamente seminando: odio etnico e religioso. Con conseguenze che potremmo pagare in un futuro non lontano. Le cronache di queste ore, riportate soprattutto dall’esemplare Bbc, ci parlano di ambulanze che non riescono a raggiungere vaste zone per la violenza dei combattimenti in corso. Di moltitudini di civili palestinesi in fuga dalle proprie case: nonostante mostrino bandiere bianche vengono attaccati dalle forze israeliane. Della Marina israeliana che blocca, in acque internazionali, una nave carica di aiuti umanitari destinati alla popolazione di Gaza. “Negando l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza viene meno il basilare rispetto dei diritti e della dignità delle persone e delle comunità. Allo stesso tempo va condannato fermamente l’uso dei civili come scudi umani”. È questa la denuncia dell’arcivescovo Celestino Migliore, intervenuto ieri al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sul tema della protezione dei civili nei conflitti armati, il cui intervento è stato diffuso oggi dalla Radio Vaticana.
E poi le bombe sul quartier generale dell’Agenzia Onu per l’assistenza dei rifugiati palestinesi a Gaza City. Stessa sorte per la Torre di Al-Shuruq che ospita gli uffici di diversi media internazionali, tra cui dell’agenzia di stampa Reuters. Moschee ed ospedali colpiti. Non siamo noi in grado di giudicare i buoni e i cattivi in mezzo al complicato intreccio geopolitico del Vicino Oriente. Ma di certo, di fronte a questo scenario di morte, lo Stato ebraico non acquisisce grandi simpatie anche tra le popolazioni europee.

(Pierino Vago)

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