Carlo Loffredo è considerato il padre dei jazzisti italiani. Molisano da parte della famiglia paterna (di Castellino del Biferno, provincia di Campobasso), napoletano da parte di madre, è figlio di un ufficiale di Marina che fu trasferito al ministero a Roma.
Già da piccolo ascolta jazz: “A sei, sette anni – ricorda – di notte mi alzavo per andare a sentire sulla mastodontica radio la stazione di Hilversum che trasmetteva jazz americano. Mai saputo
dove si trovi questo posto…”.
Ed ancora: “Risparmiavo i soldi per il tram e la merenda, li mettevo da parte per poi comprarmi i dischi”.
Loffredo inizia negli anni quaranta, dopo la guerra. “Quello era un jazz d’entusiasmo – ricorda.
Nel 1942 comincia a suonare con un quintetto universitario fascista per i feriti di guerra. Viene quindi scritturato dagli americani, e poi dagli inglesi.
Le prime orchestre americane jazz che sente sono quelle militari. Ad esempio vede Ray McKinley a Roma con un gruppo militare.
Nel 1946, a Firenze, mette su un primo complessino, andando a suonare con la compagnia inglese nei campi dei soldati italiani. Utilizza i cosiddetti “V-Disc”, ormai introvabili, cioè brani incisi per tenere su il morale delle truppe. “In quei dischi c’era di tutto, musica classica, Gershwin, il cantante Ezio Pinza, c’erano Benny Goodman e Armstrong ovviamente, Lena Horn, Ella Fitzgerald… Il bello è che tutti questi musicisti incidevano i V-Disc destinati ai militari gratuitamente”. Loffredo continua a costituire proprie band. Una con Nunzio Rotondo, trombettista oggi diventato uno dei migliori d’Europa, messa su appositamente per gli americani, con un avvocato, Walter Cianfrocca, che suona il pianoforte.
Nel 1947 un suo quintetto a Praga vince il festival del jazz. Altri importanti riconoscimenti a Mosca nel 1957 ed a Vienna nel 1959.
Fonda negli anni Cinquanta la Roman New Orleans Jazz Band, che rinnova nel 1952 e guida per una quindicina d’anni, mietendo ovunque successi e consensi.
Per la Rca registra “Petit fleur” che segna un primato di vendite per quanto riguarda dischi di jazz: 250 mila lp venduti. Negli anni cinquanta il suo nome è legato alla “Roman New Orleans Jazz Band” ed alla collaborazione artistica con musicisti internazionali, periodo d’oro che prosegue fino agli anni Settanta.
Ha scoperto e valorizzato un numero infinito di jazzisti, tra cui Vincenzo Barbato, Massimo Catalano, Carlo Ficini, Romano Mussolini, Eddie Palermo, Michele Pavese, Roberto Podio, Jimmy Polosa, Nunzio Rotondo, Gianni Sanjust, Luca Velotti. Ho suonato con tutti i più grandi jazzisti del mondo. Tra gli altri: dire: Louis Armstrong, Chet Baker, i Four Fresmen, Dizzy Gillespie, Stephan Grappelli, Bobby Hachett, Earl “father” Hines, i Mills Brother, Albert Nicholas, Oscar Peterson, Django Reinhardt, Jack Teagarden, Teddy Wilson. Allergico alle case discografiche che spesso “fanno acquistare copie in cambio dell’incisione” (Ha detto: “Tutto ciò che è disco è basato sul commercio, sugli interessi, sul profitto”) ma anche polemico con le istituzioni culturali o con gli organi d’informazione che spesso snobbano il jazz. Ad esempio ha dichiarato: “Alla Rai, una volta, c’erano programmi jazz pomeridiani, li facevo anch’io. Facevo Glenn Miller o Benny Goodman. C’era chi si sintonizzava alla radio e sapeva che a quell’ora c’era Charlie Parker. Adesso non c’è più, ci sono programmi dedicati principalmente alla musica di consumo. I programmi jazz non esistono più”.
Loffredo, in sostanza, difende il jazz tradizionale “quello da New Orleans, dagli spiritual, dai gospel, attraverso la storia di Teagarden, di J. P. Johnson”, rispetto ai suoni pianificati che vengono oggi spacciati per jazz contemporaneo, tecnologico. Tra le amicizie è sacra quella con Romano Mussolini. Loffredo ha sottolineato: “Romano lo deve a me se ha cominciato a suonare. Lo convinsi. Lui si nascondeva sotto lo pseudonimo di Robert Full, una cosa ridicola perché si vergognava del cognome. Io gli feci il primo disco: io, lui e Pepito Pignatelli, primo trio con la Rca, andò benissimo e quello lo convinse, cominciò ad entrare in battaglia”.
Riccardo Laudenzi ha detto di Carletto Loffredo: “Loffredo, in fondo, ha avuto la virtù di coltivare margherite non stelle alpine sopra un terreno fatto di cemento e di merda”.
E’ morto a Roma l’8 dicembre 2018 a 94 anni.
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