FRANCESCO JOVINE



Nomi celebri

Abbiamo “ricostruito” le biografie di una cinquantina di persone, con origini molisane, che vantano un’ampia e riconosciuta notorietà.
Un elenco, per un territorio ancora sconosciuto qual è il Molise, che risulta importante per rispondere alla classica domanda: “Quali sono i molisani famosi?”.
Si tratta per lo più di personaggi che sono nati e si sono affermati professionalmente al di fuori della propria terra d’origine. Ma con il Molise, il più delle volte, mantengono un rapporto saldo, per quanto poco enfatizzato.


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Francesco Jovine, uno dei maggiori scrittori del novecento, nasce a Guardialfiera (Campobasso) il 9 ottobre 1902 e qui trascorre l’infanzia.
Il padre è un piccolo proprietario terriero e perito agrimensore. Seguendolo, il piccolo Francesco ha modo di entrare in contatto con il mondo contadino e le condizioni di miseria della popolazione.
A nove anni entra nel convitto vescovile di Larino. Quindi a Velletri (Roma) e a Città Sant’Angelo (Pescara), dove a 16 anni consegue il diploma di maestro elementare. Torna a Guardialfiera, dove dove trascorre un anno d’attesa, dedicandosi alle letture, quindi svolge il ruolo di istitutore nei collegi di Maddaloni (Caserta) e di Vasto (Chieti).
Nel 1922 presta servizio militare a Roma, ostile al militarismo, tra ribellioni e punizioni. Nel frattempo vince il concorso a cattedre e torna, come docente, nella sua Guardialfiera. I primi anni di insegnamento coincidono con gli studi di filosofia (Croce e in genere i maestri dell’idealismo). Trasferitosi definitivamente nella Capitale nel 1925, si iscrive al magistero, si laurea e diventa assistente di Giuseppe Lombardo Radice, avvicinandosi quindi ai problemi del Mezzogiorno.
Dal 1927 collabora a “Italianissima”, a “Diritti della Scuola”, quindi a “Il Mattino”, “Oggi”, “Il Popolo di Roma” e ad altre riviste. Nel 1928 si sposa con Dina Bretoni, anche lei insegnante. L’esordio letterario è con un racconto per ragazzi, “Berlué”, nel 1929.
Del 1933 è la commedia in quattro atti “Il burattinaio metafisico”. Il primo romanzo è “Un uomo provvisorio”, pubblicato a Modena nel 1934. Il secondo, “Ragazza sola”, viene pubblicato a puntate in un periodico per insegnanti nel 1936. Superato il concorso di direttore didattico, dopo un periodo di permanenza a Tunisi (1937-38) e al Cairo (1939-40) presso le scuole italiane all’estero, torna in Italia nel maggio 1940, continuando a collaborare con i giornali. Frequenta pochi letterati, tutti antifascisti. Porta avanti i suoi studi di filosofia, si interessa anche a Freud e alla psicanalisi, approfondisce gli studi sulla questione meridionale. Si dedica alla narrativa. I temi conduttori sono quelli della società meridionale, in particolare il mondo contadino della società molisana. “Ladro di galline”, serie di racconti maturati nel periodo passato all’estero, è del 1940.
Nel 1941 torna nel suo Molise come inviato speciale del “Giornale d’Italia” e firma una serie di corrispondenze. Un vecchio racconto abbozzato sin dal 1929, “Pietro Veleno, brigante”, è alla base del nuovo romanzo “Signora Ava”, pubblicato da Arnaldo Bocelli nella collana che dirige per l’editore romano Tumminelli. Siamo nel 1942.
Nel 1943 aderisce alla Resistenza, affiancando i militanti del Partito d’azione e del Partito comunista. Il 1945 segna il ritorno al teatro di Jovine con la commedia “Giorni che rinasceranno” (messa in scena nel 1948). Nello stesso anno Einaudi pubblica un’altra raccolta di racconti, “L’impero in provincia”. Sempre con Einaudi esce “Tutti i miei peccati” nel 1948. Nello stesso anno, Jovine diviene comunista militante, collaborando a “Rinascita”, all'”Unità”, a “Vie Nuove”. Aderisce all’Alleanza della cultura di Emilio Sereni. Causa una grave disfunzione cardiaca, Jovine muore nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1950. Il suo romanzo più importante, “Le terre del Sacramento”, esce postumo nel giugno 1950, ottenendo nello stesso anno il premio Viareggio. E’ una delle più significative espressioni del neorealismo. Escono postumi altri racconti e commedie.
Nel 1960 Einaudi raccoglie tutti i “Racconti”, mentre nel 1967 vengono riprese in volume, a Campobasso, le cronache del “Viaggio nel Molise” apparse sul “Giornale d’Italia” nel 1941, riproposte ad Isernia nel 1976 e, ancora, a Campobasso nel 2001.
Francesco D’Episcopo ha ristampato il romanzo “Un uomo provvisorio” (Editore Marinelli, Isernia 1982); ha pubblicato le “Commedie inedite e Cronache teatrali” (Editore Longo, Ravenna 1983); ha raccolto per la prima volta in volume il romanzo “Ragazza sola” (Edizioni Enne, Campobasso 1987).

(Giampiero Castellotti)

© Forche Caudine – Vietata la riproduzione
   

LA SCHEDA  

Il neorealismo di Jovine 

L’avventura letteraria di Francesco Jovine, più complessa, articolata e vitale di quanto non sembri, andrebbe rimediata, ai fini di una più organica collocazione dello scrittore molisano nel contesto socioculturale del suo tempo, e alla luce delle ricorrenti polemiche sui rapporti tra innovazione e tradizione e sul piano della ricerca dei legami che si stabilirono tra letteratura e teatro nella prima metà del ‘900. Nell’introduzione alle “Commedie inedite” e alle “Cronache teatrali” recentemente uscite per i tipi dell’Editore Longo di Ravenna, per l’interessamento di Francesco D’Episcopo, che da oltre un decennio lavora presso l’Istituto di Filologia Moderna dell’università di Napoli, e che l’anno scorso, presso l’editore Marinelli di Isernia, ha curato la ristampa del romanzo “Un uomo provvisorio”, si ripropone il discorso sull’atteggiamento originale che, dinanzi alla categoria del neorealismo, assunse Jovine, da Carlo Salinari considerato per l’appunto “un copione” della corrente neorealistica italiana e da Piero Pancrazi, “il narratore-poeta più gentile della prima generazione del ‘900”.  

Protagonisti senza qualità

All’interno della linea critica classica De Sanctis-Croce-Gramsci, Francesco D’Episcopo scopre gli stimoli, le motivazioni della vicenda “personale” di Jovine e proponendo una lettura incrociata dei romanzi e della commedia rintraccia un filo diretto che unisce lo sperimentalismo narrativo e teatrale di Jovine oltre che le componenti storicistiche neo-idealistiche e marxiste che sostanziarono l’esperienza letteraria di molti intellettuali impegnati nel decennio 40-50 a definire i rapporti tra politica e cultura. Il romanzo “Un uomo provvisorio” e la commedia “Il Burattinaio metafisico” è lo stesso Jovine a giudicarli delle autobiografie mentali, delle “pièces” sperimentali volte a decantare quanto di soggettivo si agitava in lui. I protagonisti “senza qualità” e “senza identità” della commedia e del romanzo, pur muovendosi nell’orbita dal “perbenismo” di Pirandello, Chiarelli, Musil, Borgese, Svevo, cercano, in una società malata di analisi e raziocinio, un rapporto organico tra cultura e storia. Nella sperimentazione decadentista di Jovine, di contro al senso della provvisorietà del tutto, c’è l’ottimismo di chi ha fiducia nel medicamento della vita, nella “possibilità dell’uomo” – scrive D’Episcopo “di inventare un nuovo ecosistema di umanità integrale”: è quanto proponeva lo stesso “teatro teatrale” di Bragaglia, del quale Jovine condivideva l’impostazione antiaccademica, la decodificazione antimitica e antiletteraria del “problemismo” pirandelliano, diffidente di ogni neo-avanguardia ludica, “amusante” o di intrattenimento, malata di velleitarismo letterario e di quel “parodismo totale” ricorrente per lo più in ogni neo-avanguardia, che perde di vista il rapporto con le cose e mette in caricatura “ogni forma mentale”, Jovine non esitava a vedere in Cocteau, l’enfant gatè della jet-society europea, un funambolo dell’intelligenza lontano dall’avvenire in sè un mondo morale di conchiusa concretezza”.  

Un grande impegno morale

Questa istanza morale, che è alla base di tutto il mondo narrativo joviniano, ispira anche le “Cronache teatrali”, comparse sulla rivista “La Nuova Europa”, diretta da Salvatore e De Ruggiero, insieme a Jovine impegnati nell’opera di restaurazione di un clima culturale che favorisse la formazione di una nuova coscienza storica e morale europea, immunizzata dai germi del provincialismo e del nazionalismo sciovinista. La polemica di Jovine contro i prosatori d’arte, i calligrafisti, “i sostenitori del frammento e del sospiretto filico”, che si erano mostrati ligi all’organizzazione dell’intelligenza proposta dal regime fascita, tendeva a rivalutare l’opera d’arte che nasce non da una meccanica, esteriore politicizzazione o ideologizzazione dei contenuti narrativi, ma da un impegno totale morale, da una partecipazione interiore ai problemi umani, da una storicistica, dialettica rappresentazione delle contraddizioni della realtà di cui Jovine tentava accanitamente di analizzare i meccanismi di funzionamento, i rapporti e le modificazioni di classe, le complesse componenti culturali: “L’opera d’arte” – scriveva Jovine, in polemica con i crociani, recensendo l'”Estetica” di Tilgher – “è un organismo integro e indivisibile strettamente connesso alla realtà, alla conoscenza del meccanismo di funzionamento della realtà egli collegava in problema del linguaggio e quindi della tecnica di trasformare la funzione critica in forma narrativa, tecnica che gli consentì di raggiungere una trasparenza cristallina un equilibrio classico della forma nei romanzi “Signora Ava” e “Le terre del Sacramento”, che costituiscono l’epilogo dello strenuo lavorio critico di Jovine, messo in evidenza dalla illuminante analisi di D’Episcopo, e che a ragione sono considerati tra i documenti più significativi della letteratura del Novecento.

(Giuseppe Jovine) 

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