Consumi e ambiente: l’insostenibile costo dei resi

Allarme resi: lo scorso anno il valore dei capi restituiti ha raggiunto quota 369 miliardi di dollari, il 10% delle vendite. Numeri destinati ad aumentare. Il motivo è in tre verbi declinabili all’infinito: ordinare, provare, rendere: è questo il circolo vizioso che sta intrappolando l’economia e soffocando il Pianeta. La possibilità di poter restituire un vestito o un oggetto comprato online è, oggi, uno dei principali elementi che influenzano l’acquisto, tanto che secondo uno studio pubblicato su The Journal of Marketing, le aziende che offrono resi gratis aumentano le proprie vendite del 457 per cento. Ed è così che, di conseguenza, il numero dei resi sta crescendo esponenzialmente, costringendo alcuni marchi a limitarne le richieste per evitare danni e perdite.

Come evidenziato da un report di Appriss Retail, lo scorso anno negli Usa il loro valore è stato di 369 miliardi di dollari, pari al 10 per cento delle vendite. Una cifra destinata ad aumentare se non si interviene: come riporta GreenBiz, l’anno prossimo negli Stati Uniti il valore dei resi toccherà la cifra record di 550 miliardi di dollari, segnando un più 75 per cento rispetto al 2016.

Ma in che modo i resi minacciano la salute del Pianeta? Innanzitutto, come rivela il New York Times, il trasporto si piazza al primo posto tra le principali fonti di gas serra nell’atmosfera, primato recentemente raggiunto dopo aver superato le centrali di energia. A questo si aggiunge la produzione record di imballaggi che genera grandi quantità di rifiuti che stanno mettendo in ginocchio le città.

“Il fashion renting può rivelarsi particolarmente utile per ridurre il numero dei resi, contribuendo alla salute dell’ambiente – spiega Caterina Maestro, fondatrice di DressYouCan. L’azienda è nota per la “locazione” dell’abito. “Con il noleggio è possibile ottimizzare il consumo rendendolo sostenibile, indossando abiti sempre nuovi senza alimentare gli sprechi tipici del fast fashion. Meno acquisti e più noleggio – continua Maestro. “Inoltre, il fashion renting è candidato a diventare un prezioso alleato di brand e stilisti poiché noleggiare i fondi di magazzino potrebbe rivelarsi la soluzione per diminuire il volume dei rifiuti tessili, un grave problema per l’ambiente dal momento che solo l’1 per cento viene veramente riciclato”.

Tra gli effetti collaterali dei resi non va, inoltre, dimenticato il packaging, con l’enorme quantità di scatole di cartone e involucri di plastica che vengono generati nel processo di restituzione: secondo quanto calcolato dalla rivista statunitense Fast Company, ogni anno negli Stati Uniti vengono spediti 165 miliardi di pacchi, un numero consistente che si traduce nell’abbattimento di un miliardo di alberi. L’aumento degli imballaggi sta diventando un problema anche per le città, costrette a far fronte a quantità sempre maggiori di rifiuti, una situazione che ha già costretto l’amministrazione di San Francisco ad aumentare la tassa dei rifiuti. Inoltre, come segnala il rapporto di Forter Fraud Attack Index le frodi legate ai resi costano ai retailer più di 15,3 miliardi di euro l’anno. Una questione che riguarda soprattutto i rivenditori che offrono resi in negozio: grazie alle facili opzioni di ritiro, i truffatori prendono le informazioni personali degli acquirenti, ordinano i prodotti e se ne appropriano.

Come evidenziato da The Business of Fashion, tra le cause che spingono i consumatori a rendere la merce acquistata, rientra il fatto che le misure spesso non sono calcolate in modo accurato e, una volta ricevuto il capo, i clienti si accorgono che la taglia non corrisponde affatto a quella desiderata. Ma non solo, secondo la rivista Women’s Wear Daily, esistono dei veri e propri serial returner:

  1. Il compulsive shopper: non può fare a meno di acquistare grandi quantità di vestiti, un po’ come Rebecca Bloomwood, la protagonista del film “I love shopping”. Tuttavia, una volta ricevuta la merce ordinata, tende a sentirsi in colpa e restituire i capi acquistati. Il fashion renting può aiutarlo, soddisfacendo sfizi e capricci senza sprechi e senza spendere cifre da capogiro.
  2. Il wardrober: acquista un capo con l’intenzione di indossarlo per una serata e restituirlo l’indomani. Secondo The Guardian, nel Regno Unito un consumatore su cinque fa wardrobing e il fenomeno costa 1,7 miliardi di euro. Anche in soccorso dei wardrober, arriva il noleggio, che nasce proprio per evitare di acquistare vestiti che difficilmente sarebbero riutilizzati.
  3. Il social media wardrober: acquista un outfit solo per sfoggiarlo sui social, perché si sa, ogni giorno occorre un nuovo #OOTD (outfit of the day). Grazie al fashion renting, si diffonde il pay-per-use, andando a soddisfare le esigenze di tutti quei consumatori che comprano abbigliamento a puro scopo di uso e consumo anziché di possesso.
  4. Il bracketer: compra diverse taglie o colori dello stesso capo, riservandosi poi il diritto di provare il tutto una volta ricevuto l’acquisto e tenere solo la versione che gli sta meglio. Un problema a cui far fronte noleggiando un vestito dal momento che i piccoli lavori sartoriali sono inclusi nel prezzo e ogni capo farà risplendere.

Ridurre i resi significa anche porre un freno al fast fashion, un’industria che emette il 5% delle emissioni globali di CO2 e crea in 48 ore ciò che, anche con le più avanzate tecnologie, occorrerebbe 12 anni per riciclare. La soluzione potrebbe essere più vicina di quanto si pensi però: d’accordo con uno studio riportato da The Telegraph, il valore dell’usato dovrebbe, infatti, superare quello del fast fashion entro il 2028. Il resale guadagnerà sempre più spazio e, soprattutto, tra i consumatori alto spendenti, che oggi rappresentano il 12 per cento dell’audience e sono pronti a raddoppiare le proprie spese nei prossimi cinque anni.

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