Dare testimonianza alla verità

Tra i testi letti e meditati durante i riti della settimana in attesa della Pasqua quello su cui mi sono fermato a riflettere cercandone i contenuti più rilevanti è stato il frammento in cui l’evangelista Giovanni narra il dialogo tra Gesù e il governatore della Giudea.

Il “quarto vangelo”, attribuito appunto a Giovanni di cui non abbiamo se non i riferimenti del nuovo testamento, di scritti apocrifi a lui attribuiti e di alcuni padri della Chiesa, viene considerato quello in cui la speculazione teologica è più profonda.

Il passo di cui mi occupo riferisce del processo di Gesù davanti Pilato il quale alle parole del primo, “Io sono nato per questo e per questo sono venuto nel mondo per testimoniare la verità. Chiunque appartiene alla verità, ascolta la mia voce” (Giovanni, 18, 37), ribatte con tono sarcastico: “Che cos’è [la] verità?”.

Il brano è certificato nel Papiro P52 e risale alla prima metà del II secolo.

La domanda del governatore nel testo originale greco non ha l’articolo e infatti è scritto semplicemente “τί ἐστιν ἀλήθεια?” cioè “che cos’è verità?”.

Non si tratta di qualcosa di marginale, ma a mio avviso di sostanziale perché Pilato, assolutamente disinteressato alle asserzioni di Chi gli sta di fronte delle quali non riesce neppure a cogliere il senso, non entra nel merito di quanto Gesù proclama, ma interrompe il confronto sradicando la nozione stessa di verità per negarne forse addirittura ogni possibilità che essa possa esistere.

Non sarà la prima né l’ultima volta in cui qualcuno metterà in discussione la natura di tale concetto; infatti la frase di Pilato sarà ripresa più volte come ad esempio da Francesco Bacone nel suo saggio “Sulla verità” o da Friedrich Nietzsche nella sua opera “L’Anticristo”.

La verità (alétheia) di cui Gesù dà testimonianza viene al contrario preceduta dall’articolo determinativo nella versione sopra riportata con chiaro riferimento alla sua enunciazione di realtà assoluta, non a una doxa che in greco indica solo un’opinione.

Gesù afferma la sua regalità che chiarisce non appartenere ai poteri di questo mondo, ma attingere la sua ispirazione dalla forza dell’amore che è appunto per lui il fondamento della verità.

Nel Prologo del Vangelo di Giovanni c’è al riguardo un’importante precisazione “E la Parola si fece carne e venne ad abitare fra di noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità (alétheia) […]. Poiché la legge è stata data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità (alétheia) sono venute per mezzo di Gesù Cristo”. (Giovanni 1, 14, 17).

Ancora più chiara al riguardo è la risposta di Gesù a Tommaso che gli chiede la via per raggiungerlo dal Padre: “Gli disse Gesù: ‘Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me’” (Giovanni 14, 6)

La verità sappiamo che può essere vista secondo una prospettiva ontologica, gnoseologica ed etica per definirne l’essenza, le vie della conoscenza e i principi relativi al comportamento.

Nei testi del Vangelo di cui mi occupo essa, più che assimilabile a un concetto e accostabile al metodo della dimostrabilità, è riferita a Dio e incarnata nella persona di Gesù Cristo e nel suo Kerigma che secondo l’evangelista Giovanni (Gv 8,32) rende liberi dalla schiavitù del peccato e cioè dal male.

Il suo fondamento, estremamente rivoluzionario sul piano storico, filosofico e teologico, è nei principi capaci di garantire a ogni essere umano i diritti naturali, civili e sociali contemperandoli per tutti con equità e giustizia e realizzando in tal modo il bene comune.

In una società controversa, egoista, discriminante e ingiusta c’è qui l’invito a uscire dall’egocentrismo, dalla ricchezza e dal potere per orientare la propria vita all’amore del prossimo; non siamo tuttavia davanti ad una proclamazione della verità legata all’enunciazione di valori, ma ad una testimonianza degli stessi attraverso uno stile di vita profondamente legato a una loro affermazione nelle relazioni ecclesiali, sociali, economiche e politiche.

Nel Vangelo la verità si manifesta come dono nell’amore, nell’invito alla condivisione, nella pace piuttosto che nel potere, nella discriminazione e nella violenza.

Rispetto al buio della storia spesso funestata dal male, dall’odio e dalla violenza in Palestina troviamo un testimone umile e talora ingombrante della verità di Dio che è Amore capace di fondare fraternità, libertà, pace e giustizia.

Si tratta di un sovvertimento dei valori della società del tempo ed è uno dei motivi che determineranno la morte in croce di questo Gesù di Nazareth che sconvolgeva i valori a fondamento della collettività ebraica e romana.

C’è al riguardo un altro passo del Vangelo che sottolinea la profonda credibilità della testimonianza di vita di Gesù rispetto alla verità ed è il seguente: “Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimano. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20,25-28).

È un chiaro invito ad amare gli altri e a mettersi con empatia al loro servizio.

I cristiani, come spesso ama ripetere don Luigi Ciotti, oltre a professarsi credenti, hanno la necessità di essere attendibili attraverso la propria esperienza di vita fedele a quel Vangelo che invita appunto all’amore per gli altri e a non cadere nella tentazione di servirsi mai, come spesso è accaduto e continua a succedere, del nome di Dio per cercare potere, onori, privilegi ricorrendo talora perfino alla violenza individuale e collettiva.

Gli atti degli Apostoli, che ci riferiscono dell’autenticità delle prime comunità cristiane, dovrebbero impedire di ripetere gli errori o le ipocrisie di cui tanti credenti hanno disseminato la storia raggiungendo finalmente la credibilità con un sistema di vita che non cerchi l’affermazione di se stessi ma la creazione di un circolo di comunione e di condivisione non solo all’interno della Chiesa ma dell’intera umanità.

Papa Francesco continua a ripeterci in merito che non c’è nulla di più grave che usare il nome di Dio per giustificare l’odio, la violenza e l’esclusione sociale.

Oggi c’è chi davanti alla verità si pone come portatore di certezze assolute ed è incapace di ricerca e confronto soprattutto sui suoi aspetti etico-sociali; non manca al contrario chi ritiene che essa non si possa raggiungere volendo spesso relativizzare la pretesa delle convinzioni altrui, ma in nessun caso le proprie.

Heidegger ci dice che il termine “alétheia”, tradotto con “non nascondimento”, definisce una verità che consiste in una sorta di autorivelazione dell’Essere la quale tuttavia non è mai completa e va indagata con umiltà e senza radicalismi di alcun tipo.

Il nostro stesso esistere ruota intorno al concetto di verità che pertanto va ricercato proprio per dare un fondamento alla nostra stessa ragione di essere al mondo.

La domanda di Pilato a Gesù “Che cos’è [la] verità?” continua ad attraversare la riflessione e la vita non solo di filosofi e teologi, ma dell’intera umanità perché tutti abbiamo bisogno di dare una risposta di senso alla nostra vita.

Chi ha fede trova tutto questo nella Parola di Dio e nella sua capacità salvifica e liberante, ma anche chi non è credente riesce a scoprire con coscienza libera e onestà intellettuale le tracce del vero che poi sono nel bene e nel bello e attraversano l’esistere in tutto il corso della storia.

Sono tanti quelli che oggi per motivi d’interessi egoistici o ideologici, resi schiavi da una corruzione sempre più dilagante, provano a occultare la verità mistificando i fatti sia nelle cause che nelle conseguenze.

Per chi sceglie il pluralismo nell’informazione e sa maturare lo spirito critico sicuramente è facile distinguere il grano dalla zizzania ovvero i frutti della bontà e dell’amore dai veleni della falsità e del male.

Un errore grande sarebbe quello di rinunciare al cammino libero della ricerca fermandosi alla radicalità del dogmatismo acritico o ad atteggiamenti di scetticismo e d’indifferenza presenti oggi nel relativismo come nel cosiddetto pensiero debole; l’altro, ancora più grave, consiste nell’ipocrisia di chi proclama principi senza adeguarvi il proprio stile di vita.

Per questo, come sostiene appunto Gesù Cristo, la verità non va proclamata soltanto, ma soprattutto vissuta e testimoniata.

(Umberto Berardo)

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