Domenico Iannacone: con “Che ci faccio qui” il giornalismo diventa poesia

Domenico Iannacone (foto Rai)

Ha chiuso con il suo Molise. Con il suo umile e inesplorato Molise. Collegandolo e cucendolo all’Irpinia del poeta Franco Arminio. Due entroterra difficili. Per lo più montani, aggettivo che ormai equivale ad isolamento in questa società sempre più urbanocentrica. Territori, entrambi, dalla forte comunanza, flagellati dall’irreversibile dissanguamento migratorio e da nebulose prospettive future.

La trasmissione “Che ci faccio qui” su Raitre – domenica scorsa il congedo – è stata un’oasi nel deserto televisivo di proposte ormai convenzionali e stereotipate. Domenico Iannacone, il “padrone di casa”, si conferma narratore dallo stile molto personale. Con il giornalismo che sfocia in mera poesia. Così la domenica sera, in una programmazione televisiva fiacca e immutabile, s’è incastonata questa perla di osservazione sociale e di sensibilità umana. Dalla Calabria alla Campania, dalla periferia romana fino al libraio di Pitigliano, una serie di racconti da territori “di confine”, ma sempre conditi di buone azioni, di valori desueti, di virtù sorprendenti. E di tanta speranza.

E’ un giornalismo non urlato quello di Iannacone. Costruito principalmente su silenzi significativi. Sono le immagini, belle, a volte commoventi, a parlare. E ad invitare alla riflessione più profonda.

Ogni puntata è costruita sul viaggio. Esteriore ed interiore. Un girovagare curioso e incuriosito, come in fondo deve essere ogni esplorazione, ma con il giusto rispetto per l’interlocutore, per situazioni spesso paradossali, sempre complesse ma mai dome. E’ un giornalismo capace ancora di sorprendersi e di sorprendere. Mai banale. Non a caso polarizza, ne siamo certi, quegli ascolti “di qualità” che ormai sfuggono dall’audience televisiva. C’è il mondo social migliore a discuterne ogni giorno, con garbo e ammirazione.

Qualcuno ha giustamente osservato che le trasmissioni di Iannacone hanno una vocazione espressamente letteraria. E’ vero. Un poeta di elevati parametri come Franco Arminio, protagonista delle ultime due puntate di “Che ci faccio qui”, non è certo materiale da trasmissione commerciale. Da quelle somme di “ego” che farfugliano negli studi televisivi. Figuriamoci. Uno che riconosce ancora il valore di un libro, di una lirica, di una rima, anche come merce di prezioso baratto. Ecco perché è stato il più idoneo accompagnatore per una peregrinazione nell’anima. Nello spirito più profondo dei paesi dell’Irpinia stravolti dal sisma del 1980 o dei borghi molisani sempre più svuotati di persone e quindi di senso. I due viaggiatori hanno compiuto la difficile opera di recuperare proprio quel “senso”, quelle memorie, quei saperi sepolti dall’abbandono e dall’indifferenza. Ma anche dagli sprechi (quanti !), dalle profanazioni (si pensi all’eolico, giustamente rilevato in una puntata), dalle assurdità che diventano ferite evidenti, dalle malefatte di amministratori senza etica né amore per luoghi d’origine che servono solo da pretesto per muovere denaro e consenso. Il messaggio di Iannacone è reso forte proprio dalla capacità dello stupore, di una meraviglia non manovrata dall’effimero.

Il giornalista molisano, come già aveva fatto nei suoi “Dieci comandamenti”, è un perfetto alchimista alla ricerca dell’armonia tra estetica e sostanza. Nello zapping le sue immagini catturano subito, giungono dirette, sincere, senza fronzoli. Una sorta di dignitosa confidenza che sfocia in un’illuminazione condita di aspettativa e di fiducia.
E la televisione, una volta tanto, torna mezzo di reale servizio. Soprattutto per la mente e per l’anima.

(Giampiero Castellotti)

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