Il direttore del quotidiano Domani, Stefano Feltri, si è chiesto che senso abbia continuare ad investire denaro e salute per tenere aperta l’Ilva di Taranto. Domanda drastica che obbliga a risposte altrettanto nette.
Tenere aperta l’Ilva di Taranto è in larga misura la cartina di tornasole della capacità (o dell’incapacità) della ripresa economica dell’Italia di arrivare a coniugare salute, compresa quella di chi lavora negli stabilimenti, livelli di occupazione e sviluppo economico di qualità. La prima risposta a Feltri è che rinunciare alla produzione di acciaio sarebbe l’indice di un grave fallimento delle politiche pubbliche italiane, con conseguenze pesantissime, i concorrenti internazionali non aspettano di meglio che ottenere le quote di mercato gratis. Sarebbe del resto improponibile mantenere aperto uno stabilimento nemico della salute delle persone e del territorio, continuando a tenere aperta una ferita drammatica che la sentenza del tribunale di Taranto costringe ad affrontare.
Certo il rilancio dell’Ilva, superando la crisi drammatica in cui è precipitata, è una sfida enorme, ma con questa bisogna misurarsi. Non si esce senza una svolta netta e lungimirante. La transizione ecologica non può ridursi a mettere il timbro sulle conseguenze del mercato, raccogliendo i cadaveri delle aziende in crisi ma deve impegnarsi seriamente a progettare il futuro e qui c’è un limite (ad essere garbati) del PNRR che deve essere superato. Se il PNRR è un piano, anche le politiche pubbliche che lo attuano debbono avere le caratteristiche di un progetto, di un piano. La precondizione è staccarsi nettamente dalla politica di rapina della produzione e dalla rinuncia ad investire con coraggio sul futuro e dai danni alla salute con cui le popolazioni hanno convissuto oltre ogni limite ragionevole. Queste sono state le caratteristiche di fondo dei padroni dell’Ilva condannati a pene pesanti, per questo occorre imporre una svolta innovativa nelle politiche industriali. Certo nella sentenza di Taranto è difficile comprendere perché proprio la presidenza della Regione sia stata messa nel mirino, con condanne che non sembrano fondate, per di più ignorando le responsabilità di chi aveva poteri ispettivi sugli stabilimenti e doveva intervenire, oppure chi avrebbe dovuto intervenire prima con adeguate politiche industriali. Leggeremo meglio la sentenza quando verrà pubblicata.
Le vicende sociali ed economiche dovute alla pandemia hanno confermato che è un errore perseguire un decentramento produttivo che fa mancare i mezzi indispensabili per tutelare la salute, oppure l’affidamento di produzioni strategiche al solo mercato, che ha convenienze altalenanti e contraddittorie con l’interesse pubblico. Perfino i chip per le auto sono diventati una strozzatura produttiva dopo l’esaltazione acritica del decentramento delle commesse. Quindi occorrono politiche pubbliche favorevoli all’insediamento produttivo in Italia e in Europa. Neppure un soldo deve andare a chi decentra. Del resto altri paesi europei stanno procedendo in questa direzione per conto proprio. La Germania lo sta facendo proprio per i chip per le auto, ognuna ne monta circa 3.000. Mentre sarebbe necessario avere un coordinamento con affidamenti intraeuropei delle politiche produttive che stentano a decollare.
Le scadenze a cui l’Italia è obbligata dagli accordi di Parigi e dagli orientamenti europei sulla decarbonizzazione dovrebbero spingere ad un accordo corale per raggiungere gli obiettivi, con il contributo di tutti i soggetti interessati, tutti gli stakeholders per capirci. Un conto è procedere per bandi sul mercato, altro è concordare e concertare comportamenti convergenti delle componenti sociali fondamentali. Per questo occorre un governo che governi, non un laissez faire privo di obiettivi. Il primo soggetto che dovrebbe entrare in campo è il governo, impegnato sul PNRR ma in realtà prigioniero di non poche contraddizioni e con alcuni ministri che sembrano preoccupati più di favorire i rinvii chiesti sistematicamente dai gruppi economici più consistenti, anche a partecipazione pubblica, che dalla volontà di imporre loro un salto di qualità, che i pacchetti azionari in mano pubblica consentirebbero. Se lo Stato è azionista di gruppi importanti solo per lasciare decidere al mercato è meglio che ne esca. Invece dovrebbe rimodellare i gruppi dirigenti, sulle cui nomine ha titolo, in modo coerente con gli obiettivi della transizione ecologica.
Ad esempio il ministro per la transizione ecologica Cingolani sembra più preoccupato di prolungare il più possibile la transizione che dall’obiettivo di accelerare una svolta green d’avanguardia nell’economia e nell’occupazione. Per questo è difficile comprendere perché l’ingresso dello Stato nell’azionariato dell’Ilva non sia contestuale con direttive precise al nuovo gruppo dirigente dell’azienda per una radicale trasformazione produttiva, fondata su un acciaio di qualità prodotto con tecniche basate sull’uso di tutte le rinnovabili e partendo con un esperimento ad idrogeno verde, cessando l’uso del carbone e in generale delle fonti fossili. Si parla molto dell’acciaieria di Linz, che produce 6 milioni di tonnellate e sembra essere immune dai disastri creati nel territorio di Taranto.
Se questo non avverrà lo Stato entrerà solo per gestire il residuo sociale ed economico di un concorrente (ArcelorMittal) che è riuscito a conquistare il ponte di comando con l’unico obiettivo di accaparrarsi quote di mercato per altre sue aziende. Anzi ha deciso investimenti innovativi con il rispetto di vincoli ambientali, ma non in Italia. Così lo Stato avrebbe il contrario del win win.
Si tratta di una svolta produttiva, occupazionale, di qualità che potrebbe ricomporre passo dopo passo la frattura tra l’ambiente e la salute. Per decenni è prevalsa una frattura tra lavoro e ambiente, imposta dalla gestione dell’Ilva che per le caratteristiche assunte ha portato ad una rottura disastrosa tra lavoro e ambiente. In altre parole, ha prevalso la subalternità e quindi la sconfitta perché non c’è stata la forza di raccogliere e gestire la sfida di Taranto.
Senza rinunciare a produrre quantità ottimali di acciaio di buon livello occorre una svolta che renda questo compatibile con sviluppo ed ambiente, tanto più che se parte la sfida dell’eolico off-shore, che attende ancora il piano del governo per la localizzazione in mare, sarebbe curioso che queste commesse potenziali dell’Italia vengano dirottate dall’Italia a produzioni di altri paesi concorrenti. Tuttavia, se non viene affrontato con coraggio il nodo del futuro dal nuovo gruppo dirigente, su indicazioni del governo, potremmo trovarci nella situazione paradossale che una proprietà maggioritaria pubblica anziché proporre una linea di politica industriale finisca con il preludere al ricorso agli strumenti che vengono definiti ammortizzatori sociali.
È una sfida epocale che l’Italia deve vincere.
Un acciaio di alta qualità può essere conveniente sul mercato nazionale come dimostrano casi di aziende estere, a condizione che la scelta di tutelare salute e ambiente sia fatta oggi, non rinviata futuro perché il patto avanti così e solo promesse per il futuro non regge più. La politica dei due tempi non regge più, o c’è un accordo vasto di tutti o non si va da nessuna parte.