Nella brutta storia del ragazzo romano ucciso sullo sfondo di un terrificante giro di droga, si è inserito il gesto di una madre coraggiosa, Giovanna Proietti che, superando una viscerale omertà filiale, ha denunciato con le lacrime in gola e il cuore a pezzi, uno dei due balordi, suo figlio Valerio “perché meglio in galera che tra gli spacciatori”.
Un gesto quasi sovrumano, sparito in 24 ore dai media, ma che ha gettato luce su un dramma “collaterale”: quello di famiglie devastate e sempre più numerose che si accorgono di avere il problema in casa, incapaci di affrontarlo e spesso vissuto in silenzio per la vergogna di denunciarlo. E sappiamo quanto sia più difficile fare outing in piccoli centri di provincia.
Ho condotto in passato varie inchieste sulla droga, la prima delle quali, nel 1981, riguardò un gruppo di tossici della borgata romana di Primavalle che, affiancati da un medico, occuparono di notte una palestra al cui esterno i genitori esposero decine di cartelli con una sola scritta: “Aiutateci”. Per vari giorni i ragazzi resistettero, molti non ce la fecero, alla fine arrivò Vincenzo Muccioli e se li portò tutti a San Patrignano. Il caso ebbe risonanza perfino fuori d’Italia, ma tutto nacque da genitori disperati che avevano capito l’importanza di associarsi. (Nel 1983 Muccioli fu accusato di “sequestro di persona”. Durante il processo intervistai un testimone eccellente, Paolo Villaggio, padre di un ospite di San Patrignano.).
Parliamo di quarant’anni fa e la gravità del problema è percepita in Molise grazie anche alla stampa e alle reiterate denunce del procuratore della Repubblica Nicola D’Angelo. Di fatto però la consapevolezza emersa ad alcuni livelli istituzionali è pari alla frustrazione per assenza di risultati. Eppure proprio sul fronte delle “famiglie invisibili”, vittime delle vittime della droga, si potrebbe lavorare molto promovendo serie iniziative di associazionismo. In migliaia di famiglie il subdolo pericolo di droghe pesanti e a basso costo si è insinuato a loro insaputa. Questa “insaputa” è appunto un tema che noi della stampa dovremmo imporre all’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica.
In generale tutti i genitori temono gli agguati della “piovra” ma sperano, più spesso ne sono sicuri, che i propri figli ne siano risparmiati. Però può succedere che si ignorino o sottovalutino certi comportamenti “spia” di questi nostri ragazzi abili nel prendere mamme e papà per “cappuccetti rossi” e, credendosi forti (“smetto quando voglio”), iniziano sballi per gioco e “per stare bene” ma che poi non possono smettere per non star male. Così l’assumere droghe diventa la centralità delle loro vite spezzate.
Rispondere al quesito “Droga che fare?” è fuori dalla nostra portata ma non si può rimanere inerti dinanzi all’impreparazione e alla sofferenza di genitori costretti ad affrontare in solitudine una dolorosa via crucis familiare. Cortei e fiaccolate possono scaricare le nostre coscienze, ma ciò che serve sono iniziative di concreta solidarietà. In Italia molti genitori hanno sentito il bisogno di associarsi con chi vive lo stesso problema sulla propria pelle. Questo però è un handicap che rende settoriale e “corporativa” una battaglia che dovrebbe essere collettiva e fatta propria dalla società e dalla politica. Il nostro appello è dunque rivolto ai genitori non toccati dal flagello affinché la loro presenza rafforzi l’attenzione politica e sociale verso questi sodalizi (per non dire che dalle loro esperienze si può imparare a difendersi della “insaputa”).
Molti anni fa scoprii negli Stati Uniti un’associazione di genitori, potente e ascoltata proprio perché la stragrande maggioranza era formata da persone non toccate dal flagello, ma socialmente sensibili a un problema che poteva toccare tutti. Avevano uno slogan che andrebbe adottato e diffuso ovunque: “Occupati droga, prima che se ne occupino i tuoi figli” (Get involved with drugs, before your children do).
(Giuseppe Tabasso)