Giuseppe De Rita e la crisi dei “corpi intermedi”

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella riceve Giuseppe De Rita, presidente Fondazione Censis (foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Il novantenne Giuseppe De Rita, fondatore del Censis e decano dei sociologi italiani, ha mandato all’Unsic, in occasione delle festività natalizie, un interessante libretto, scritto qualche mese fa e fuori commercio, dedicato proprio a noi che apparteniamo a quelli che lo studioso chiama “corpi intermedi di rappresentanza e di mediazione”. In sintesi De Rita analizza, con estrema lucidità, i “processi regressivi” generalizzati della maggior parte di tali strutture (sindacati, partiti, ecc.). Ed evidenzia quanto questo fenomeno di disintermediazione contribuisca alla frammentazione della società e della crisi complessiva.

Il sociologo, nel dettaglio, denuncia “la fortissima tendenza alla verticalizzazione e all’accentramento dei poteri (nella finanza e nella logistica, come nella dinamica istituzionale)”, spiega che il sistema è sempre “più liquido”, richiamando Baumann e notifica il rinchiudersi da parte dei singoli soggetti nella propria sfera d’azione che favorisce il modello statalista. Lo studioso romano giustamente si lamenta: “Una società senza collante intermedio determina se non una crescente disgregazione, almeno una continua navigazione a vista”.

Questa cinquantina di pagine hanno il merito di farci interrogare sul nostro ruolo sociale. È un’operazione ambiziosa, anche perché nel tran tran quotidiano c’è purtroppo sempre meno spazio per la riflessione. È lo stesso De Rita ad indicarci l’importanza storica del ruolo dei “soggetti di mediazione” nel guadagnarsi spazio nelle imprese, nella mobilitazione delle categorie, nella risoluzione di conflitti aziendali, ma anche nell’orientamento dell’amministrazione pubblica. Ne consegue l’importanza “sociale” di un’organizzazione di rappresentanza datoriale, che è un organismo “regolatore”.

Quali sono le minacce odierne? Principalmente vengono dai processi di globalizzazione collegati a quelli di finanziarizzazione, che tendono a spazzare via secoli di relazioni “dal basso”, territoriali, costruttori di quel sano tessuto sociale che individuiamo ancora soprattutto nella provincia italiana, non a caso ai vertici per la qualità della vita. Purtroppo, infatti, è cresciuta l’importanza delle grandi banche d’affari, delle immense reti di trasporto e di logistica, degli apparati di ricerca: crollata l’etica, l’individuo diventa sempre più piccolo, insignificante, emarginato. E anche le strutture a lui più vicino rischiano di snaturare il proprio ruolo di mediazione se si abbandonano a tali logiche mondializzate.

De Rita spiega come spesso il lavoro di mediazione si limiti ormai ad “antiche modalità”: nel mondo e nei luoghi della produzione ci si limita a mediare dinamiche di campo agricolo o di fabbrica, quando il “valore” dei prodotti viene stabilito sul mercato internazionale e nella dinamica delle grandi filiere; nel campo del lavoro ci si limita a semplificare opzioni sulla quantità dei comparti, mentre tutti sanno che è sempre più la capacità dei singoli a dare crescente qualità alle proprie occupazioni.

Quale potrebbe essere la “ricetta” per invertire la tendenza? Attraverso esami di coscienza sempre più collettivi, occorre comprendere in tempo i processi di cambiamento. Se la mediazione è nata nei campi, nelle piazze, in fabbrica, nei laboratori artigianali, nelle stanze del terziario, occorre prendere atto che questi mondi sono radicalmente cambiati, ad esempio con la robotica, con la digitalizzazione, con la globalizzazione, con lo smart working. La risposta? Una è il “primato delle filiere”, vincente in moltissime dinamiche di presenza italiana sul mercato internazionale (abbigliamento, arredamento, enogastronomia, produzione di macchinari industriali). Un’altra è la valorizzazione della propria “autoconsistenza”, cioè l’esaltazione del brand, la disarticolazione, la crescita della base finanziaria. Ancora De Rita a proposito del periodo di crisi pandemica: “Solo le imprese strutturalmente dipendenti dal mercato interno hanno dovuto attendere sostegni e ristori dal potere pubblico”. Insomma, la globalizzazione va compresa, gestita, persino sfruttata e non subita.

L’ottavo capitolo del libretto richiama l’importanza crescente della comunicazione di massa e della forza crescente del mondo dell’opinione: “siamo in una realtà dove non si fa mediazione e rappresentanza se non si ha la forza di orientare i flussi aggregati di consenso”. La denuncia è chiara: l’opinione domina sul consenso. De Rita qui sorprende perché cita il Pnrr come “figlio di qualche ondata d’opinione” in quanto, pur con tante risorse finanziarie reperite e promesse, è “troppo centrato su obiettivi strategici di alto spessore (digitalizzazione, transizioni ecologiche ed energetiche, primato della sostenibilità, ecc.) ma così generici… e troppo disegnato come strumento di un salto epocale, troppo prigioniero di tentazioni elitarie e dirigistiche e senza quella elaborazione intermedia che possa tradursi in concrete pratiche d’azione. Tutto cala dall’alto, quasi in una sfida epocale di modernità avanzata, senza però innestare la mobilitazione dei tanti mondi di soggettualità economica e territoriale, delle imprese come della società civile, delle autonomie locali come delle vitali comunità locali”.

In effetti l’esempio della progettazione in stile Pnrr o Ponte sullo Stretto sono emblematici. Per chi propugna giustamente i valori dell’articolazione sociale contro l’accentramento – e l’Unsic ne è una rappresentazione quotidiana – o della partecipazione rispetto alla sola decisionalità, dell’aderenza alla realtà rispetto ai roboanti progetti per il futuro, i tanti Piani calati dall’alto e messi in mano alle grandi società di progettazione o, come li chiama De Rita, ai “furbi spicciafaccende” rischiano davvero di vanificare il loro potenziale, o perlomeno una parte di questo, se non vengono coinvolti direttamente quei “corpi intermedi” di cui abbiamo parlato finora, quelle necessarie convergenze e integrazioni tra mondi sociali ed economici, cioè imprese, logistica, reti, welfare, apparati di servizio, politiche territoriali, che hanno nelle organizzazioni di rappresentanza un imprescindibile punto di riferimento.

(Domenico Mamone)

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