Il “diario del tempo” di Alessandra De Blasio

Ho letto in anteprima “Ora restano i fiori”, il nuovo struggente libro di Alessandra De Blasio. È dedicato alla madre, scomparsa un anno e mezzo fa. Il libro è un perfetto “diario della morte”. E, conseguentemente, delle vite che restano orfane degli affetti. Perché la privazione di un amore è perdita di un grande pezzo dell’esistenza. È inquietudine, affanno, smarrimento.

Epicuro, nelle sue “Lettere sulla felicità”, sosteneva che la morte è il più atroce di tutti i mali, in quanto non esiste per noi che viviamo; ma quando c’è lei, noi non ci siamo. Un po’ come quelle antiche iscrizioni – ce n’è una negli ossianici sotterranei della splendida Santa Maria della Scala a Siena – che ricordano a chi legge di essere vivo proprio perché sta leggendo, mentre chi l’ha scritta ha avuto la consapevolezza che l’epigrafe avrebbe superato la sua vita.

Seneca, al contrario di Epicuro, sosteneva che temere la morte è insensato, in quanto è una certezza e quindi oggetto di timore può essere solo l’incerto. Rassicurante, ma non convincente.

Il libro di Alessandra De Blasio, oltre a raccogliere la cronaca della scomparsa della persona più cara, di colei che ci ha dato e “modellato” la vita, costituisce soprattutto un dettagliato registro del dolore biografico. Un testo costruito con una scrittura sincera, diretta, a volte sferzante, in una costante altalena tra una ricercata funzione terapeutica della consolazione letteraria e l’inevitabile autolesionismo dello strazio, profonda ferita volutamente e tenacemente riaperta per tentare di comprenderne (vanamente) le cause, la ragione.

Il componimento dell’autrice, imbevuto di inesauribile essenza poetica, è principalmente un quaderno del tempo. “C’è stato un momento di disperazione – scrive la De Blasio. “Lunghe ore senza inizio e senza fine. Mamma è stata l’unica parola. Era l’11 maggio 2021 e l’ho ripetuta e ripetuta e ripetuta guardando fuori nel vuoto della mia finestra. Poi di notte lei è entrata nel limbo, in quel luogo prima della morte in cui tutti temiamo di arrivare. Sarà stato soltanto un attimo, solo un lunghissimo, maledettissimo attimo, in una stanza di ospedale di notte mentre era sola. Io da lontano pensavo che non poteva essere vero che un incubo nero potesse diventare ancora più nero. E invece l’incubo è diventato più nero nel mentre il mio unico pensiero è stato che io, senza mia madre, non ce l’avrei fatta a resistere in questa vita”.

La scomparsa della madre è “indigestione di dolore”, è “anfora piena di lacrime”, è soffocamento come “lo zucchero filato finito di traverso”. È l’incubo delle notti che si protrae e alligna di giorno. È una zattera di dolore nel mare della vita. Tutto ciò diventa paura dell’esistenza e non della fine. Perché la morte è troppo grande per imbrigliarla con le parole. Siamo inadeguati, noi esseri di passaggio, di fronte al suo mistero.

Si prova, allora, a dare un senso all’inconsistenza del vuoto riempendola di ricordi. Una madre che sorrideva raramente ma lo faceva immortalata eternamente dalle foto. Che valore assumono le immagini. O a ripetere all’infinito “Questo è il tempo della tua morte” sperando che l’usura di questa frase ne faccia perdere il senso.

Sono spiragli che una figlia tenta di rafforzare: “Improvvisamente mi è tornato alla mente quando mi raccontava della sua nascita, che era nata piccolissima, un chilo e mezzo, senza speranza. L’avevano sistemata per questo nell’ovatta, con le bottiglie di acqua calda vicino. Lo raccontava sempre che, a dispetto di tutto, era invece sopravvissuta. E così ho trovato la forza di pregare per lei con la speranza. Che i miei pensieri e quelli dei miei fratelli e le nostre preghiere e tutto il nostro infinito, immenso amore potessero essere come quelle bottiglie di acqua calda e l’ovatta. Accanto a lei, a riscaldarla mentre moriva, sola, in un letto di ospedale”.

Ma i pensieri corrono, taglienti. Invadono tutto. Accendono dubbi. E se fosse morta in modo diverso, avrebbe causato lo stesso dolore? Perché “dovrebbero metterlo un bugiardino sugli effetti della sofferenza”. Già. L’imprevedibilità del tormento, il disorientamento su come affrontarlo, il maledetto tempo che non ha più regole: tornerà mai l’estate?

Ecco allora che i momenti di chi vive si sommano a quelli di chi muore. C’è un filo che non si spezza mai, sorretto soprattutto dalla speranza di una continuità infinita. Una certezza, per chi ha fede. “Il cuore aspetta l’anima, nonostante la vita distragga con le sue stupide cose”. Una figlia “complotta” con una madre ancora presente, certamente più presente di prima. Una farfalla grigia che si posa quotidianamente sui gerani che la mamma curava amorevolmente può essere un segnale? O quell’uccellino che gorgheggia sul terrazzo? O il profumo insistente delle terre bagnate, che lei amava tanto. Ogni attimo della vita ha l’essenza di una persistenza stabile dei nostri cari che non ci sono più. O forse ci sono ancora, ma noi dobbiamo coglierne i segnali. Forse l’illusione di un segnale.

Il sofferto racconto della De Blasio, una sorta di lunga lettera, si cala in quello che l’autrice definisce efficacemente come “arsenale della morte” fatto anche di lugubri accessori. C’è la bara, la nuova “abitazione” della defunta, la “sua” casa; il cimitero, con i cognomi della città (Campobasso), gli angeli di pietra annerita, il ricongiungimento con il marito nel loculo unico, la trepidazione di Alessandra per quel gelido vento della sera per cui la mamma “potrebbe avere freddo”.

Il bel libro della De Blasio non è facile. Va distillato. Prende per mano e ci immerge brutalmente in ciò di cui, soprattutto nell’edonismo odierno, non si vuol sapere né vedere. L’ambizione all’eterna giovinezza rende più drammatico l’avvicinarsi di quell’incontro finale. Ma, citando l’immenso Battiato, dimostra che “la cura” c’è e forse è proprio nel colore dei fiori (che restano) e nell’amore che possiamo offrire.

Il libro uscirà nel 2023, ne daremo la notizia.

(Giampiero Castellotti)

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