Il referendum e le distanze tra politica e cittadini

Non c’è stata legislatura in Italia, negli ultimi decenni, che non sia stata contrassegnata da un acceso dibattito sulle riforme istituzionale ed elettorale. Se l’articolo 70 della Costituzione delinea con appena nove parole un panorama chiaro e organico (“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”), consegnando ad appositi regolamenti parlamentari il quadro istituzionale più dettagliato, le riforme degli ultimi decenni di “riordino” della materia – da quella del 2001, che ha lasciato strascichi nei burrascosi rapporti tra Stato e Regioni, a quella di Calderoli del 2006 sotto il segno (e il sogno) del federalismo all’epoca di moda (la celebre devolution), fino a quella della Boschi del 2016 – non hanno certo brillato per efficacia e lungimiranza, spesso addirittura per ammissione degli stessi promotori.

Un certo “conservatorismo” insito nel nostro Paese non ha mai gradito “ingerenze” su una Costituzione considerata, forse un po’ troppo enfaticamente, la più bella del mondo, ma di certo un affidabile faro, specie a fronte dello spessore dei “riformatori” di turno dei nostri giorni. Emblematica la mesta fine dell’ultimo tentativo, il referendum costituzionale del 2016 che ha segnato anche l’involuzione della carriera politica – almeno finora – di un leader come Matteo Renzi.

Il quarto referendum costituzionale nella storia della Repubblica, a cui siamo chiamati per esprimere il nostro parere i prossimi 20 e 21 settembre, ci pone di fronte all’approvazione o meno di una norma costituzionale (articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari) e non di una legge esistente. Un referendum, quindi, confermativo di una legge che il Parlamento ha già approvato con il complesso iter previsto per le norme di rango costituzionale (le due distinte votazioni in ciascuna delle due Camere, distanziate l’una dall’altra di almeno tre mesi e approvazione, in questo caso, a maggioranza semplice). La consultazione, come noto, non prevede il raggiungimento del quorum.

Sul tappeto c’è la diminuzione del numero dei parlamentari, 230 deputati in meno (scenderebbero a 400 complessivi) e 115 senatori in meno (diventerebbero 200). Un taglio di circa un terzo dei tanti “politici nazionali”. Novità anche per i senatori a vita: non più cinque nominati al massimo da ogni presidente, ma cinque in totale.

Semplificando, chi voterà “Sì” esprimerà adesione alla riduzione del numero dei parlamentari, chi voterà “No” ne sarà contrario.

I primi ritengono che il numero dei parlamentari, con annessi infiniti privilegi, sia eccessivo nel nostro Paese, specie se raffrontato a quello degli altri Paesi europei. In effetti la Germania, con 82 milioni di abitanti, ne ha 778, 177 meno di noi, la Spagna ne ha 616 e gli Stati Uniti addirittura 535, con ben 328 milioni di abitanti. La scelta del “Sì” comporterebbe anche un taglio sostanzioso ai costi della politica (tra i 100 e i 300 milioni all’anno, ma i sostenitori del “No” parlano di 57 milioni, che comunque non sono pochi) e, tra le argomentazioni esposte, anche un miglioramento del processo decisionale delle Camere, che diventerebbe meno contorto e capzioso.

C’è anche una tendenza demografica da tenere presente: il numero degli italiani è – e sarà – in netto calo, per cui un adeguamento del numero dei parlamentari non costituirebbe proprio una bestialità.

Inoltre molti parlamentari, negli anni di mandato, restano soltanto “numeri” a disposizione delle votazioni secondo gli ordini di scuderia: una loro riduzione non cambierebbe le cose, salvo ridurre il numero dei privilegiati e dei centri di spesa.

I sostenitori del “No” ostentano principalmente due argomenti: un Parlamento meno rappresentativo della popolazione e soprattutto la penalizzazione delle Regioni più piccole, che sarebbero meno rappresentate (in realtà molti parlamentari non sono espressione dei territori dove vengono candidati ed eletti, emblematico Berlusconi eletto qualche anno fa in Molise o il calabrese Minniti nelle Marche).

Al di là delle posizioni individuali sul tema, una cosa è certa: la pragmatica riduzione del numero degli eletti, per quanto sacrosanta per ridimensionare certi eccessi di una classe politica, o perlomeno di una larga parte di essa ben rappresentata dalla “Casta” di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo del 2007, necessita di successive e avvedute integrazioni. Non può costituire una pratica lasciata in mano solo a ciò che resta dell’antipolitica, opportunamente e strumentalmente riesumata all’occorrenza. Occorrono atti che restituiscano centralità e soprattutto autorevolezza a quel parlamento incapace, finora, di autorigenerarsi. Le (tante) mancate riforme assennate e adeguate ai tempi della legge elettorale ne sono appunto la prova più evidente. Di certo un numero ridotto di parlamentari – augurandoci che sia anche qualitativamente migliore, ma non c’è ovviamente automatismo tra le due cose – potrebbe rendere più facili possibili modifiche a qualsiasi genere di legge, incluse quelle costituzionali. Sperando non in modo peggiore.

(Domenico Mamone)

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