Gli Stati Uniti d’America hanno votato per il presidente e contestualmente per il Congresso.
Si fa un gran parlare della grande democrazia in quel Paese, ma credo che essa stia vivendo la stessa crisi di tutte le altre in genere denominate liberali.
Votare a suffragio universale per la Camera e il Senato, ma ricorrere per le presidenziali a un’elezione indiretta con sistema maggioritario nella quale con il voto popolare si eleggono i grandi elettori dei vari Stati nei quali in ogni caso il candidato presidente che ottiene il maggior numero di voti se li aggiudica tutti indipendentemente dalla percentuale dei consensi ottenuti non sembra davvero il massimo del rispetto della volontà popolare e di un sistema proporzionale di rappresentanza.
Il presidente non è in tal modo espressione della popolazione, ma degli Stati attraverso i grandi elettori che sono in totale 538.
Se aggiungiamo che il voto è fortemente condizionato dalle scelte del potere economico e finanziario con interventi decisivi nella campagna elettorale e che la percentuale dei votanti si attesta abitualmente tra il cinquanta e il sessanta per cento, è chiaro che la democrazia rischia di essere solo formale condizionando fortemente la partecipazione dei cittadini di cui solo una parte votando esprime deleghe negli organi istituzionali.
In queste elezioni ad esempio un forte schieramento di plutocrati delle più grandi corporations ha contribuito con diversi miliardi di dollari a sostenere la campagna elettorale della Harris ma soprattutto di Trump.
È facile immaginare ora una simbiosi tra potere economico e politico che rappresenta sicuramente un pericolo enorme per la democrazia.
La stragrande maggioranza ottenuta dai Repubblicani sia alla Camera che al Senato dà loro praticamente un potere pieno per quattro anni.
312 grandi elettori hanno votato per Trump a fronte dei 226 per la Harris.
I Repubblicani e i Democratici hanno rispettivamente 27 e 23 governatori mentre in Senato 52 e 45 seggi e alla Camera 206 e 192.
Alla corte Suprema poi i primi hanno una schiacciante maggioranza.
Con tali dati che fine fa la separazione dei poteri se sono tutti nelle mani del presidente?
Premesso ciò, proviamo ad analizzare le ragioni della larga vittoria di Donald Trump sia nel voto popolare che in quello dei grandi elettori.
Aveva un programma reazionario, sovranista, maschilista, isolazionista, fondato tutto su principi tradizionali e sul contrasto xenofobo per gli immigrati ma anche a suo dire orientato a combattere l’inflazione e a sostenere l’economia americana.
A sostenerlo in campagna elettorale c’era in particolare il miliardario Elon Musk che è il proprietario dell’industria automobilistica Tesla e rappresenta il nuovo leader delle piattaforme digitali.
Dall’altra parte Kamala Harris, con una candidatura calata dall’alto per volontà di Biden e non certo per decisione della base attraverso elezioni primarie, ha portato avanti un progetto politico ambiguo e senza trasparenza su quelli che dovevano essere i temi centrali della campagna elettorale.
Nessuna idea chiara da parte sua sull’immigrazione, sull’inflazione, sulla situazione economica, sulle posizioni da assumere rispetto ai tanti conflitti aperti nel mondo, sulla transizione energetica, sulla riforma della Corte Suprema.
Questa incapacità di accreditarsi, la vaghezza del programma e lo stesso scarso sostegno dalle elites della sua forza politica e dai media hanno allontanato dal partito democratico soprattutto l’elettorato giovane e quello della popolazione latino-americana, cattolica e araba.
Insistere nella contrapposizione a Trump su questioni marginali piuttosto che indicare sistemi per creare condizioni di vita migliori per gli americani o disegnare percorsi di giustizia e pace per il mondo è stata un’idea perdente.
Rispetto al programma dei repubblicani, in perfetto modello di business dettato da Elon Musk e fondato sull’autoregolamentazione dell’economia e del commercio da parte della grande finanza, la Harris non è stata capace di disegnare un orizzonte economico credibile e rassicurante.
Non era difficile ad esempio portare gli americani a riflettere sull’impossibilità per Trump di superare l’inflazione proprio perché nella sua campagna elettorale suggeriva la creazione di dazi nel commercio e il calo dei tassi alla Federal Reserve che otterrebbero proprio l’effetto contrario.
I democratici hanno perso perché non sono stati in sintonia con un popolo che chiedeva un’equa redistribuzione della ricchezza sempre più concentrata in una ristretta minoranza.
Negli Stati Uniti d’America la realizzazione dei diritti sociali è ancora lontana per tanta parte della popolazione e il sogno americano di un miglioramento dello status sociale risvegliato dalla propaganda di Trump non credo sarà realizzato dalla sua presidenza tra l’altro alla mercè della grande finanza.
Diciamolo con chiarezza: queste elezioni non le ha vinte Trump, ma le ha perse il Partito Democratico!
Dubito che il nuovo presidente nelle dichiarazioni e nello stile di vita possa essere considerato il difensore dei valori cristiani, eppure i cattolici statunitensi lo hanno sostenuto nonostante egli parli apertamente di deportazioni degli immigrati irregolari.
A proposito di grande democrazia si insedierà ora alla Casa Bianca il 47° presidente alla veneranda età di 78 anni dopo aver creato contrasti e divisioni tra la popolazione negli ultimi quattro anni.
Ricordiamo che il nuovo eletto ha due impeachment, vari processi, due condanne penali, diversi scandali ed è considerato l’ispiratore dell’assalto a Capitol Hills, ma secondo la CNN il procuratore speciale Jack Smith avrebbe avviato subito trattative con i vertici del Dipartimento di Giustizia sul modo di porre fine ai procedimenti penali contro Donald Trump.
Tanya Chutkan, giudice che cura il caso, ha già sospeso infatti le procedure in corso e ha annullato tutte le scadenze pendenti nella fase pre-processuale per l’assalto a Capitol Hill per una prassi consolidata ma bizzarra secondo la quale un presidente in carica non può essere perseguito.
Già molti inneggiano a Trump dimenticando i tanti aspetti controversi della sua personalità.
Non ho stima per chi come lui si atteggia a superuomo nel linguaggio e nella vita e ritengo che il nuovo presidente rischi di creare un’enormità di problemi a livello interno e internazionale.
Il primo effetto di questa elezione è stato l’arricchimento in borsa dei dieci miliardari più ricchi del mondo che solo mercoledì 6 novembre hanno guadagnato sessantaquattro miliardi di dollari.
La pancia del Paese in America si attacca alla mitizzazione delle promesse generiche e talora assolutamente irrealizzabili mentre il potere continua ad arricchirsi con i sistemi decisamente immorali come quelli della borsa valori fondati su un neoliberismo che genera società nelle quali mancano le forme più elementari di solidarietà in una umanità ormai priva dei valori della fraternità, indirizzata dal potere plutocratico del mondo finanziario e orientata a rincorrere il totem dell’arricchimento spropositato che sta generando disuguaglianze fuori da ogni limite.
Se gran parte del popolo idolatra chi si arricchisce in tal modo e tenta di negare i principi basilari della democrazia, è evidente che abbiamo perso l’orientamento per la realizzazione di una convivenza accettabile tra gli esseri umani.
Il secondo effetto di queste elezioni sarà sicuramente un ruolo di primo piano nel nuovo governo per Elon Musk ringraziato calorosamente da Trump e da lui definito un “super genio”.
Il grande potere economico e finanziario entra in tal modo nel governo americano alla faccia del conflitto d’interesse.
Il nuovo presidente parla ora agli americani di una “nuova età dell’oro” e promette la soluzione dei più grandi conflitti armati nel mondo per i quali i riferimenti sembrano i leaders mondiali piuttosto che gli Stati e già filtrano ipotesi di accordi decisamente penalizzanti per le popolazioni conquistate come quella ucraina e palestinese.
Del problema politico legato al futuro di Taiwan poi nulla si riesce a comprendere nelle sue dichiarazioni.
Sono tutte questioni di geopolitica che non possono essere risolte a livello bilaterale, ma che è necessario affidare alle organizzazioni internazionali cui occorre dare una struttura più democratica ma anche ruoli efficaci e non più ridicolizzabili come è accaduto al contingente Unifil in Libano da parte di Netanyahu.
La Cina ma soprattutto i Paesi dell’Unione Europea temono naturalmente la politica economica protezionistica del programma repubblicano che immagina dazi fortissimi per i prodotti importati dall’estero verso gli Stati Uniti d’America.
Il timore in Europa è che Trump col suo isolazionismo possa bloccare la transizione ecologica, innescare contrapposizioni commerciali, rinfocolare sovranismi e populismi, sgretolare la stessa Unione Europea e sguarnire la Nato chiedendo forti aumenti del contributo economico dei Paesi aderenti senza minimamente immaginare una politica del disarmo e un nuovo ed efficace ruolo dell’ONU.
Le dichiarazioni dei principali leaders delle grandi potenze sono per ora orientate al dialogo e alla collaborazione con gli Stati Uniti.
Biden, congratulandosi con il nuovo presidente per la vittoria, ha assicurato una transizione pacifica e cordiale dei poteri.
Ora bisogna sperare che nelle decisioni politiche del nuovo governo americano prevalga la ragionevolezza.
Preoccupa in ogni caso questa involuzione della democrazia nel mondo che ci sta portando sempre più verso il potere di autocrati pericolosi per la libertà, l’uguaglianza e la pace per le quali sembra prospettarsi un orizzonte denso di nubi nere come appare ormai evidente anche in Italia.
Il nostro compito di cittadini attivi e responsabili al riguardo è quello d’impedire una tale deriva con la lotta per la difesa dei diritti.
L’indifferenza e l’afasia ci renderebbero al contrario corresponsabili di tutto il male e le ingiustizie che attraversano il mondo creando povertà e disperazione in quelli che papa Francesco chiama “gli scartati” da una società iniqua e talora crudele.
(Umberto Berardo)