La crisi dell’olivicoltura italiana

Fino a poco più di vent’anni fa il comparto della nostra agricoltura, che aveva, con la ricchezza della biodiversità, la fama della qualità, il primato di olio evo esportato e il maggior numero di riconoscimenti Dop e Igp, anche il primato della superficie coltivata e delle quantità di olio prodotte.

C’è di più – non è problema da niente – la nostra olivicoltura non ancora era stata inquinata da tre varietà spagnole che hanno aperto la strada agli oliveti superintensivi, che saranno un disastro per i nostri territori (clima, ambiente, paesaggio), al pari di quelli dell’agricoltura industrializzata e degli allevamenti superintensivi.

La Spagna dopo il sorpasso ha allungato e distanziato, facendoci vivere per un paio di decenni il secondo posto e, lo scorso anno, con la Grecia che ha prodotto più di noi, siamo rimasti ancora sul podio, scendendo, però, dal secondo al terzo gradino. Un numero esagerato di associazioni e di unioni – sempre più divise – è la ragione di un produttore che non conta nulla all’interno della filiera, divenendo così vittima dell’industria e della distribuzione che hanno approfittato più del dovuto.

A tutto c’è da aggiungere l’abbandono dell’agricoltura da parte dei governi (soprattutto quelli con i presidenti nominati), a significare l’affermazione del sistema, il neoliberismo, che gode della distruzione e depredazione dei territori, maggiormente di quelli più vocati allo svilupo del settore, oggi ancor più di ieri, perno necessario per lo sviluppo di un’economia in profonda crisi, tutta nelle mani delle banche e delle multinazionali.

La verità cruda e nuda è che quelli che devono governare il comparto olivicolo e quelli che lo devono rappresentare per difendere i suoi protagonisti, gli olivicoltori, continuano a rendere poca cosa una realtà fondamentale per lo sviluppo dell’agricoltura biologica, la sostenibilità dei territori, il clima, l’ambiente e il paesaggio, la fama della Dieta mediterranea, base di un’alimentazione sana.

Tutto questo nel momento in cui è sempre più una necesssità urgente programmare lo sviluppo del comparto con nuovi impianti per 800mila ettari; recuperare gli oliveti abbandonati, dando forza e spazio all’agricoltura sociale; riconquistare i mercati con i nostri oli evo e non con quello che dell’Italia porta solo il nome; conquistare, pensando alle nuove generazioni, i consumatori del domani per dare loro un prodotto sicuro amico della salute, e non solo, anche espressione di storia, cultura, tradizioni, cioè di quel passato di cui ha bisogno l’oggi e il domani.

Ci sono realtà valide da cui prendere esempio per essere uniti, pensare e fare il bene del comparto olivicolo, penso a due associazioni, le Città dell’Olio e Pandolea – le donne dell’olio, che all’olivo e all’olio stanno dando un contributo prezioso, soprattutto di immagine e di iniziative, per rilanciare la nostra olivicoltura; dare risposte di reddito ai suoi protagonisti; arricchire di altra bellezza il paesaggio rurale; riportare al centro della tavola, cibo sano e il suo filo conduttore, l’olio evo, per fare rivivere il piacere del convivio e l’importanza di stare insieme. Per contribuire, anche e soprattutto, alla cura del clima e ad avere un ambiente sano, sapendo che esso riflette la bontà di una società e di un’economia.

Pasquale Di Lena

Articoli correlati