La sinistra preda delle contraddizioni

C’è un’ambivalenza che tormenta la sinistra da diversi anni: restare nella strada del massimalismo o imboccare quella del riformismo.

Il massimalismo della sinistra cosiddetta “antagonista”, con le posizioni più radicalmente “di sinistra”, equivale a rimanere nel perimetro delle posizioni storiche di quest’area ideologica che è stata particolarmente rilevante nel nostro Paese, incidendo anche nella stagione delle riforme degli anni Sessanta-Settanta. Cioè, soltanto per fare qualche esempio, quella che pone al centro dei suoi programmi elettorali le lotte sociali (salario minimo, reddito di base, diritti dei lavoratori, beni comuni), la ridistribuzione della ricchezza attraverso una forte tassazione per i ricchi (la richiesta della patrimoniale è il cavallo di battaglia), l’espansione del pubblico impiego, la crociata contro le privatizzazioni, l’opposizione alle spese militari e in genere agli apparati di sicurezza, ecc. Sul piano internazionale i principali “nemici” sono gli Usa, simbolo del capitalismo rapace, e la Nato. C’è poi una sostanziale “allergia” al cattolicesimo, attenuatasi con Papa Francesco, il primo pontefice che sposa gran parte di questo programma.

Si tratta di una serie di valori, a detta dei critici, che spesso s’è concretizzata più negli aspetti di frizione sociale (lavoratori contro imprenditori, inquilini contro proprietari di case, studenti contro le istituzioni scolastiche, ipertassati contro “furbetti”, ecc.) che non in reali benefici per tutti. Nel contempo, anche a sinistra “gli antagonisti” vengono spesso etichettati come fuori dal tempo, rimasti alle lotte degli anni della contestazione giovanile in una società che è fortemente cambiata da allora.

L’altra sinistra, quella che pur partendo dal più forte Partito comunista dell’Occidente s’è spostata nel tempo verso posizioni socialdemocratiche, è rimasta sostanzialmente maggioritaria in Italia, ma ha attenuato fortemente alcune posizioni storiche, scendendo spesso a compromessi. Sostenere un governo come quello dell’iperliberista Mario Draghi è una posizione che sarebbe equivalsa ad un’eresia solo qualche decennio fa.

Questo scontro tra le due “anime” della sinistra, con tutte le declinazioni possibili, si ripete da anni, addirittura da prima della caduta del Muro di Berlino. Ed è certamente deleterio per il fronte cosiddetto progressista, che ormai include, spesso accorpandole, differenti matrici ideologiche, dai socialisti fino ai liberali. E, in fondo, è uno dei fattori che finisce per favorire elettoralmente le differenti destre, da quelle più moderate e conservatrici fino a quelle più radicali, come quelle sovraniste, che risultano più coese e in grado di assicurare una maggiore governabilità. La lunga leadership di Berlusconi ha rafforzato negli anni l’ala conservatrice, che oggi, al contrario della sinistra, s’è spostata verso gli estremi rispetto al centro.

In sostanza, se in questa tornata elettorale il centrodestra ha rinnovato un patto che regge da anni, ad esempio nel governo della maggior parte delle regioni, a sinistra la tessitura è più complicata. In fondo come si fa a mettere insieme Calenda, Della Vedova e Tabacci con Fratoianni e Bonelli? O Renzi con Di Maio? Lo si sarebbe dovuto capire da subito, anziché dar vita ad uno spettacolo biasimevole di “tutto contro tutti” già nei primi giorni delle trattative. Ma anche il Pd, dove l’area della ex Margherita è ormai maggioritaria, come farà a ricollocarsi su posizioni massimaliste?

Il suicidio di quest’area, a cui sta concorrendo una legge elettorale che impone alleanze, è abbastanza evidente. Probabilmente Enrico Letta, il timoniere – suo malgrado – di questo fronte, avrebbe dovuto costruire con un po’ di preveggenza il cosiddetto “campo largo” non guardando al Movimento Cinque Stelle, autore dell’omicidio del governo Draghi e ormai elettoralmente alla deriva, ma puntando viceversa su quelle forze progressiste che auspicano da tempo un fronte comune contro le destre.

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