
Quale lavoro? Un tempo, “avere un posto di lavoro” equivaleva alla “sistemazione per tutta la vita”. Il classico posto a tempo indeterminato. Permanente e granitico. Con tanto di garanzie contrattuali, frutto di decenni di battaglie collettive per i diritti.
Particolarmente agognato quello nella pubblica amministrazione. Ma anche quello nelle aziende di Stato, in banca o nelle assicurazioni. Raggiungibili, in genere, con “la stampella”, efficace eufemismo per dribblare il classico termine “raccomandazione”. Stampelle politiche, familiari, etniche. Tempi della “liretta”, delle svalutazioni monetarie per favorire l’export e il turismo, delle pensioni-baby, persino rimpianti da chi ha i capelli bianchi.
Con l’evoluzione – o l’involuzione – dei tempi, il termine “lavoro” s’è via via depotenziato. Impietosi aggettivi l’hanno relegato al “lavoro nero”, ma anche al lavoro povero, temporaneo, occasionale, a chiamata. L’alterazione linguistica ha fatto imperversare i “lavoretti”, che in modo edulcorato vengono inclusi nella “gig economy”.
Eppure è da tempo che elettrizzati analisti scandagliano, spesso con entusiasmo di circostanza, i numeri sfornati dalla statistica istituzionale. Gli occupati sarebbero sempre di più, record su record, la percentuale di disoccupati calerebbe costantemente. Il lavoro, in sostanza, non mancherebbe. Ma quale lavoro, verrebbe da richiedersi?
Quelle trionfali ma fredde cifre, in effetti, andrebbero analizzate più approfonditamente. Perché la realtà quotidiana di tanti pseudo-lavori e delle relative “risorse umane” presenta ben altri scenari. Caratterizzati, per lo più, dalla sussistenza. I numeri positivi, paradossalmente, sono anche frutto dei tanti giovani che scappano all’estero, assottigliando le fila dei disoccupati e dei Neet.
Certo, qualsiasi lavoro, anzi, “impiego”, comunque preserva tante persone dal baratro. Dal totale avvilimento. Ma l’ampia zona grigia, che include tanti lavoratori autonomi e occasionali, dipendenti con part time obbligato (“involontario” viene ufficialmente definito, come se capiti per caso), partite Iva e parecchia arte d’arrangiarsi con orari impossibili e stipendi da fame, ha trasformato l’occupazione in una condizione non più adeguata ad un’esistenza dignitosa.
Il dato inconfutabile è che i salari non sono cresciuti. E non crescono. Gran parte delle responsabilità viene addossata al comparto dei servizi, dove sono maggiori la flessibilità e lo sfruttamento.
Ad acuire la situazione ci sono le differenze di genere, con le donne molto più “povere” degli uomini, quelle generazionali, con i giovani messi molti peggio degli adulti, quelle etniche, con gli immigrati destinati ai “lavoretti”. E ad incidere ulteriormente c’è l’aumento del costo della vita, con la complessiva contrazione del potere d’acquisto: in Italia, mentre i prezzi dei prodotti al dettaglio sono notevolmente cresciuti, i salari reali si sono invece ridotti dell’8,1 per cento dal 2000 al 2023, rispetto al resto d’Europa dove sono cresciuti in media del 5,3 per cento.
Per compensare la scarsa produttività, le aziende hanno puntato soprattutto sulla riduzione del costo del lavoro.
Da non sottovalutare l’incidenza della pandemia da Covid-19, che ha peggiorato la condizione delle fasce più deboli, erodendo le retribuzioni e aumentando, di conseguenza, le diseguaglianze. Si sono ampliate le disparità anche nel mondo del lavoro, dove le figure professionali più ricercate e specializzate, forti di una buona formazione, sono rimaste competitive sul piano economico, quindi ben remunerate, mentre il personale non specializzato ha subìto gli esiti più nefasti della crisi.
Ben altre statistiche, quelle di Eurostat, confermano il lievitare del numero dei lavoratori cosiddetti “poveri”, cioè con un reddito inferiore al 60 per cento di quello mediano nazionale. In un solo anno la loro percentuale in Italia è transitata dal 9,9 per cento del 2023 al 10,2 per cento del 2024. Ed anche il 9 per cento di coloro che hanno un lavoro full time si trova in condizione di sofferenza, con un più 0,3 per cento rispetto all’anno precedente.
Una ricerca Iref-Acli, realizzata su un campione di 785mila dichiarazioni dei redditi, conferma come il lavoro povero aumenti le diseguaglianze di genere, territoriali e intergenerazionali. «Negli ultimi dieci anni – attesta il presidente nazionale delle Acli, Emiliano Manfredonia – i lavoratori a bassa retribuzione sono aumentati del 55 per cento, passando dal 4,9 al 7,6 per cento sul totale occupazionale».
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel corso di una visita di qualche settimana fa allo stabilimento BSP Pharmaceuticals di Latina, ha denunciato l’insufficienza dei salari nel nostro Paese. «Sappiamo tutti come le questioni salariali siano fondamentali per la riduzione delle disuguaglianze, per un equo godimento dei frutti offerti dall’innovazione, dal progresso. Tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita – ha detto il capo dello Stato, condannando anche l’indifferenza sulla piaga delle morti sul lavoro, nonché il primato negativo dell’Italia con «salari reali inferiori a quelli del 2008».
Il lavoro, quello vero, cioè di qualità più che di quantità, quello anche frutto di reali investimenti e buona contrattazione, dovrebbe tornare al centro dell’agenda politica del governo e di tutto il Parlamento. Ma già sappiamo che ciò sarà difficile, tra entusiasmi eccessivi e bandiere ideologiche del reddito minimo.
(Giampiero Castellotti)