Le scelte internazionali dell’Italia

Vale la pena di insistere sulla valutazione delle scelte internazionali dell’Italia e dell’Europa dopo il vertice inglese dei sette grandi (definizione discutibile) e del vertice Nato. Come ho scritto nell’articolo della settimana scorsa qualcosa non funziona nei ragionamenti che vengono semplificati nella fedeltà all’atlantismo. Dopo il vertice Nato con Biden risulta ancora più chiaro che le soluzioni proposte non sono convincenti.

Biden è stato apprezzabile quando è andato oltre i limiti di Obama, presidente durante la crisi finanziaria internazionale iniziata nel 2008, perché ha avuto – a differenza del suo mentore – una visione mondiale dell’esigenza di tassare le multinazionali per mettere un punto fermo di regolazione. Infatti Obama si era fermato negli intenti regolativi dei mercati finanziari alle soglie dei confini degli Usa, finendo con il non realizzare pienamente neppure gli obiettivi interni e lasciando sfumare il momento magico in cui il mondo finanziario era sotto scopa. Infatti dopo qualche tempo la finanza ha rialzato la testa e ripreso il comando dell’economia mondiale. Un comando lontano, fisicamente poco definito, difficile da controllare, tanto che i bitcoin e le altre monete virtuali non sono state regolate, anzi nemmeno controllate e oggi sono una delle più pericolose fonti di speculazione (Savona) e non solo visto che i sempre più frequenti ricatti degli hacker vengono richiesti in queste valute sfuggenti e immateriali, secondo il vecchio adagio che pecunia non olet.

Biden si è spinto oltre puntando a intaccare le elusioni e le evasioni fiscali delle multinazionali. In verità ha parlato di un’aliquota al 21% ma sono altri, segnatamente l’Europa, che hanno finito con il premere per ridurre l’aliquota al 16%. Perché l’Unione Europea abbia svolto il ruolo del frenatore è difficile capire, pur considerando i paradisi fiscali interni e i meccanismi decisionali all’unanimità, basta ricordare che anche il Delaware è un paradiso fiscale. interno agli Usa.

L’altro aspetto importante è che Biden oltre a puntare sulla vaccinazione di massa negli Usa per frenare la pandemia ha posto il problema dei brevetti delle Big Pharma, senza metterli in discussione in linea di principio ma rilanciando il criterio che i brevetti possono essere o sospesi fino a superamento di una situazione drammatica della salute pubblica, oppure concessi in licenza pressoché gratuita per produrre il numero di vaccini necessari in tutto il mondo. Anche in questa occasione l’Europa si è distinta con la foglia di fico di dare priorità ad una maggiore produzione. Certo un problema reale, tanto più che gli Usa hanno dato priorità fino ad ora alle vaccinazioni interne. Ma la produzione negli stabilimenti attuali ha dei limiti evidenti e perfino delle non convenienze, mentre offrire l’opportunità di fermare la pandemia nel mondo è un’assicurazione per i paesi sviluppati che non riuscirebbero mai a salvarsi dall’ondata di ritorno della pandemia delle aree più povere. Ora qualcosa è cambiato ma ancora poco e anche il vertice che ha promesso un miliardo di vaccini per i paesi poveri non risolve il problema visto che è stato calcolato che ne occorrono almeno 7 miliardi. Per il resto come si fa? Il vaccino tedesco si è rivelato non adeguato e quindi si ripropone il problema di fondo.

Anche in questo caso è l’Europa ad avere frenato.

In altri campi l’Europa ha avuto un ruolo di conserva con gli Usa ma non sono esattamente le scelte migliori, anzi una certa subalternità non aiuta.

È vero che dopo lo sciagurato periodo di Trump ritrovare un interlocutore nel nuovo Presidente Usa è importante per tante ragioni, alcune convenienti anche per l’Italia come la sospensione dell’aumento dei dazi. Tuttavia è la scelta di fondo che non convince. In sostanza Biden mantiene un connotato, certo non paragonabile al predecessore, che individua un nemico esterno, in questo caso la Cina. Non si tratta di essere filocinesi o anticinesi, ma di confrontarsi con una realtà politica, economica e sociale come la Cina è decisivo per il futuro del pianeta e l’idea che si possa collaborare sul clima e litigare sul resto, o peggio, sembra francamente inadeguata. Era sbagliato sentirsi obbligati ad inviare contingenti sotto l’ombrello Nato in altri paesi quando gli Usa lo chiedevano con insistenza (Iraq, Afghanistan, ecc.), è sbagliato oggi andarsene senza spiegazioni da luoghi in cui si rischiano genocidi e vessazioni, senza porsi il problema di quali soluzioni sono state trovate per risolvere le situazioni. Gli incontri con i talebani per esempio sono stati solo con gli USA. Le decisioni sulla Palestina ed Israele sono state prese da Trump ed oggi ereditate da Biden che finora non ha mostrato di avere novità da proporre. L’Europa dovrebbe discutere seriamente sul ruolo autonomo che dovrebbe svolgere per regolare pacificamente tutte le controversie in cui questo è possibile. La soluzione di allargare l’area geografica di possibili interventi Nato in altri continenti ne cambierebbe il significato da alleanza transatlantica ad alleati degli Usa nel mondo. Bisogna discuterne apertamente, perché il problema è mal posto.

Il vero problema è ridare ruolo e forza alle sedi internazionali. La grande idea dell’Onu dopo la Seconda guerra mondiale ha svolto per anni un ruolo importante, non sempre efficace ma in ogni caso con un orizzonte regolatorio che cercava di frenare i conflitti. Ora non si può rinunciare all’Onu, al di là dei finanziamenti che vanno dati, ma semmai occorre rilanciarne il ruolo, riformandolo e cercando di rilanciarlo come sede di regolazione delle controversie e dei conflitti, in sostanza un orizzonte di pace. Perfino le trattative per il futuro dell’Afghanistan avrebbero dovuto avvenire in quella sede. Così per la Siria, per la Libia, ecc. Invece si è forzato per avere l’Onu ridotto a copertura delle scelte già compiute, poco o nulla influente. La stessa questione del clima sarebbe un errore non continuare ad affrontarla all’interno di una sede internazionale, a cui tutti dovrebbero attribuire un ruolo fondamentale. Il rilancio del ruolo Nato nel mondo è la naturale conseguenza di una miopia sul valore che andrebbe attribuito, per convenienza di tutti, alle sedi politiche di dialogo e confronto.

La questione del rapporto con la Cina sta qui. È conveniente attribuire ad un interlocutore, per quanto lontano possa essere per cultura e assetto istituzionale, il ruolo di babau? O invece tutte le materie fondamentali dovrebbero essere affrontate nelle sedi internazionali esistenti, anche riformandole, per creare gradualmente il clima che può portare a ridiscutere di riduzione degli armamenti, di riduzione delle spese militari per dedicare queste risorse allo sviluppo e alla capacità di portare intere aree del mondo fuori dalla povertà e dalla morte?

Ampliare la pace e la coesistenza pacifica e ridurre i conflitti non sono cani morti del passato ma modernissime questioni che dovrebbero trovare proprio nell’Europa, memore di essere stata fonte delle maggiori tragedie del XX secolo, il primo protagonista. Invece sembra di vedere assuefazione, rassegnazione, incapacità di affrontare le novità, anche negative, rovesciando le contraddizioni nel loro contrario.

Se l’Europa resterà un nano politico sulla scena internazionale non riuscirà a svolgere un compito che le è proprio, per certi versi unico, quello di premere sugli Usa per convincerli ad abbandonare una visione troppo condizionata dal dibattito interno, dalle presunte convenienze interne, ad esempio dalla sfida delle elezioni di mid term che sono da sempre un incubo per una maggioranza risicata come quella di Biden.

Per di più c’è un rapporto stretto tra le scelte economiche che si profilano all’orizzonte di qui a qualche tempo e la possibilità di liberare risorse per la competizione pacifica e non per gli armamenti. Per questo l’atlantismo del vertice inglese e della Nato non hanno convinto.

(Alfiero Grandi)

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