Non essendo riuscito mai a darsi un’idea accettabile della morte e considerandola “la più terribile fatalità biologica”, secondo l’espressione del filosofo e sociologo francese Edgar Morin, l’essere umano ha cercato d’interpretarne il senso in chiave religiosa o più semplicemente l’ha considerata un elemento del ciclo cosmico, ma il più delle volte l’ha rimossa per allontanare la paura che essa determina.
Se dunque l’umanità ha terrore della morte, riesce davvero difficile capire come si possa provocarla con la violenza nella guerra sopprimendo migliaia e in alcuni casi milioni di persone in gran parte tra la popolazione civile e soprattutto tra i giovani.
La storia ci ricorda che, nonostante momenti di assenza di eventi bellici, quasi tutte le comunità ne hanno vissuto la tragedia.
La nostra epoca ne è attraversata ovunque e la cosa grave è che ciò per molti non sembra più costituire un problema da risolvere.
Un rapporto di Global peace index riferisce che su 163 Paesi analizzati abbiamo 56 conflitti allargati che insieme ai quasi cento di livello locale costituiscono il numero più elevato dopo la seconda guerra mondiale.
Secondo lo stesso Istituto di ricerca l’Islanda sarebbe lo Stato più tranquillo del mondo mentre lo Yemen tra i meno pacifici, seguito da Sudan, Sud Sudan, Afghanistan e Ucraina.
In tale classifica l’Italia si trova al 33° posto.
Nel 2023 in Ucraina ci sono stati quasi 100.000 morti, nella striscia di Gaza 42.000 mentre in Myanmar 30.000 dall’inizio delle ostilità; gli sfollati poi sono già migliaia e credo che nei prossimi mesi gremiranno le vie enormemente precarie dell’emigrazione.
Sono numeri semplicemente agghiaccianti considerato soprattutto che tra essi ci sono migliaia di bambini.
Il costo complessivo delle guerre a livello globale nello stesso anno è stato pari a 19.000 miliardi di dollari, ma gli interventi per il mantenimento della pace sono stati finanziati con appena 49,6 miliardi di dollari.
Myanmar, Siria, Palestina e Messico sono ai primi quattro posti per tasso più elevato di ostilità mentre Sudan e Nigeria risultano i più violenti, però non tutti hanno la stessa copertura mediatica perché si preferisce dare attenzione a quelli più coinvolti a livello geopolitico.
I conflitti sono aumentati in maniera spaventosa, ma i mezzi d’informazione sembrano interessati solo a quelli che rischiano di creare problemi al sistema economico mondiale.
C’è poi la minaccia praticata sugli operatori dell’informazione che di recente in Libano è costata la vita ad Ahmad Akil Hamzeh, autista di una troupe di RAI 3.
I dati di morti, mutilati e sfollati delle guerre in corso sono impressionanti!
Il profitto, posto alla base dei sistemi economici mondiali, è sicuramente la causa scatenante della stragrande maggioranza delle stesse.
L’imperialismo capitalista, lo statalismo sovranista e plutocratico come i sistemi autocratici operano per difendere i propri interessi economici convinti di poter ancora dividere il mondo in aree geografiche dove immaginano di dettare regole di vita, organizzazione territoriale e influenza sui sistemi politici.
Putin ha dichiarato di recente che sarebbe iniziato “un percorso irreversibile verso un nuovo ordine mondiale”.
Lo scenario geopolitico che essi dettano è purtroppo ancora quello della divisione della comunità internazionale in blocchi di Stati contrapposti.
I tanti conflitti aperti dicono con chiarezza che siamo davanti a un’escalation della guerra senza precedenti e assolutamente fuori controllo.
L’occupazione di Putin in Crimea o la risposta di Israele al pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023 ad esempio non trovano alcuna giustificazione quando non rappresentano la soluzione di un problema, ma sono solo la ricerca della vendetta che oltretutto sta oltrepassando ogni limite finalizzata con gravissime stragi al rafforzamento del potere e all’allargamento dei confini del proprio Stato.
La regionalizzazione di molti conflitti è ormai un dato di fatto e, se non stiamo attenti, qualcuno di essi potrebbe allargarsi ancora di più.
Non c’è giorno in cui non si alzi il tiro e da diverse parti non si minacci l’utilizzo del nucleare.
Se il commercio delle armi aumenta le vendite in ogni direzione e le relazioni tra i leaders mondiali s’incentrano su discussioni come quella di autorizzare l’Ucraina a usare missili e droni sul territorio della Russia o a decidere quali obiettivi Israele può colpire in Iran nelle sue rappresaglie, anche chi non si occupa di strategie militari riesce a comprendere chiaramente che nella soluzione dei conflitti aperti la politica pensa unicamente ancora e solo ai sistemi militari e dunque il suo fallimento è plateale.
L’idea imperialista è assolutamente ancora viva purtroppo un po’ ovunque, ma in particolare negli Stati Uniti d’America, nella Russia di Putin, nella Cina di Xi Jinping, in Netanyahu o nel leader supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei.
I silenzi o le dichiarazioni subdole sugli scenari di guerra nel mondo e in particolare sulle continue provocazioni della Cina per l’annessione di Taiwan dimostrano in chi sa leggerli che nelle grandi potenze mondiali l’ipocrisia non ha limiti.
Tanti ormai sono i governi che con doppiezza barattano con il potere e il prestigio i diritti umani di intere popolazioni come quella palestinese e tale ambiguità non cesserà fino a quando continueremo a relazionare il valore delle cose e persino delle persone unicamente al denaro.
Se di fronte ai massacri cui stiamo assistendo non si è capaci di raggiungere almeno un cessate il fuoco o non si vuole imporre nemmeno il rispetto del diritto internazionale sulla guerra, vuol dire che si pensa ad altro invece che a risolvere le crisi in maniera incruenta e umana.
È ciò che sta facendo Putin in Ucraina ma anche Netanyahu in Medio Oriente con la complicità di altri Paesi.
Israele nella sua lunga e sempre più assurda notte di guerra è arrivata al crimine di sparare sul contingente d’interposizione UNIFIL dell’ONU nel sud del Libano e domenica ha chiesto platealmente a Guterres di rimuoverlo.
Credo che stia scavando la terra sotto i suoi piedi in un percorso bellico che rischia di essere il suo suicidio.
Finora con telefonate, comunicati e proteste di circostanza stiamo assistendo alla finzione dei Paesi occidentali che dichiarano di spingere lo Stato ebraico a limitare le sue azioni continuando al contrario a fornire armi e a non applicare alcuna vera sanzione alle mire espansionistiche e ai massacri a Gaza e nel Libano giustificandoli con la necessità dell’autodifesa.
Sono ormai molti a pensare che Israele stia facendo un lavoro sporco in Medio Oriente non disdegnato da molti Paesi occidentali, ma anche da quelli arabi sunniti che già stavano vicini agli Accordi di Abramo.
La doppiezza delle posizioni di molte Nazioni, incapaci perfino di contenere ogni azione militare spropositata, è palese perché esse sono legate allo Stato ebraico da transazioni di carattere economico ma anche politico nella definizione del nuovo assetto in Medio Oriente.
La congiuntura creatasi con le elezioni americane potrebbe portare nei prossimi giorni ad attacchi mirati all’Iran.
Netanyahu in ogni caso credo abbia scelto di percorrere una strada che lo sta rendendo prigioniero di se stesso; ci sono infatti Paesi che esigono da Israele di spiegare le tante violazioni del diritto internazionale umanitario anche se nessuno finora arriva a chiedere il ritiro degli ambasciatori in quello Stato o che esso receda dalla follia dei bombardamenti indiscriminati che stanno creando veri e propri massacri tra la popolazione civile.
Se, come io credo, impedire l’entrata di aiuti alimentari a Gaza dall’inizio di ottobre e attaccare la missione internazionale UNIFIL siano crimini di guerra, non si può non convocare il Consiglio di Sicurezza e la stessa Assemblea Generale dell’ONU per chiedere a Israele di fermarsi e di giungere a una tregua.
Abbiamo più volte scritto che l’ONU per la sua struttura e le sue regole organizzative non riesce a svolgere alcun ruolo nella gestione dei conflitti aperti per i quali non può esserci altro che una soluzione negoziata come da tempo afferma papa Francesco.
Nonostante la necessità più volte avanzata di una revisione della struttura e delle regole delle Nazioni Unite, è indubbio tuttavia che il loro ruolo vada difeso perché al momento è l’unica organizzazione internazionale che abbiamo per opporci alla protervia dei potenti guerrafondai.
Se è vero che la politica non tutela più i diritti dell’umanità, i cittadini cosa pensano della ferocia che abita i teatri di guerra?
In un sondaggio ISPI-Ipsos, i cui risultati sono stati appena resi noti, il 77% degli italiani si dice molto preoccupato delle guerre in corso, ritiene che la responsabilità di quelle in Crimea e Medio Oriente vada attribuita soprattutto a Putin, Hamas, Hezbollah e Netanyahu; il 54% inoltre auspica che il Governo italiano riconosca lo Stato di Palestina e il 69% che ci si debba adoperare per una mediazione tra le parti in grado di orientare ogni energia a una soluzione diplomatica delle crisi aperte sotto l’egida dell’ONU.
Di certo non si possono più tollerare le devastazioni e i massacri della popolazione civile che vediamo in Ucraina o a Gaza e in Libano.
Sono delitti contro l’umanità che pesano sulle nostre coscienze quando diventiamo insensibili, indifferenti, rassegnati.
Il movimento pacifista ha cercato di delineare le azioni di difesa popolare non violenta in grado di farci uscire dalle contrapposizioni dispotiche e sanguinose.
Di fronte al persistere delle guerre abbiamo oggi il dovere d’impedire la sopraffazione e la prepotenza che tendono a calpestare i diritti altrui.
Le strategie non possono consistere solo nelle manifestazioni pubbliche con la rassegnazione all’impotenza, ma devono essere soprattutto orientate a un processo di ricerca delle possibili soluzioni ai problemi e di educazione per creare una cultura della pace che orienti anzitutto all’eliminazione della produzione delle armi a cominciare da quelle letali autonome sulle quali si è discusso venerdì pomeriggio 11 ottobre a Roma, alla facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza.
La guerra reca morte, distruzione, sofferenza e disperazione.
Il suo rifiuto attraverso l’informazione e l’obiezione di coscienza dev’essere il primo passo per cancellare la violenza dalla storia.
Come vediamo dalle immagini televisive le popolazioni coinvolte nei tanti conflitti armati sono stremate.
Abbiamo allora la necessità di una mobilitazione mondiale persistente per chiedere di deporre le armi e arrivare alla tregua ridando spazio al dialogo.
Viviamo in un’epoca in cui si sta seminando troppo odio e non si è capaci di promuovere la convivenza tra i popoli.
Nella soluzione delle ostilità aperte quindi si devono cercare il confronto e la diplomazia che rappresentano i mezzi in grado di portarci a una pace positiva fondata sul riconoscimento del diritto alla vita e alla libertà per ogni essere umano.
Certo non avremo società pacifiche se non saremo capaci di uscire da atteggiamenti egoistici come dalle contrapposizioni tra popolazioni e Stati orientandoci alla convivenza con il diverso e alla costruzione della giustizia sociale attraverso istituzioni e strutture democratiche.
(Umberto Berardo)