L’istruzione oltre la Dad

Dad, acronimo di didattica a distanza, definisce la forma d’insegnamento posta in essere on line dal sistema scolastico per rimediare in qualche modo alla chiusura degli istituti d’istruzione con l’insorgere della pandemia da Coronavirus.

Ormai a chi opera come educatore nella scuola è sempre più chiaro che si tratta di un surrogato di quella che invece è una metodologia molto articolata a fondamento dell’insegnamento e delle forme di ricerca culturale attuate nella didattica in presenza.

La Dad, in essere ormai da un anno, ha certamente limitato la catastrofe sul piano dell’istruzione ed ha permesso in qualche modo di portare avanti il processo educativo, ma le tante ore passate davanti ad uno schermo hanno annullato relazionalità, socialità e confronti creando seri problemi di ordine psicologico e di organizzazione del lavoro ai docenti, ma soprattutto agli allievi giacché entrambi, avendo perso il contatto con la realtà e il vissuto, mostrano sempre più stanchezza ed avvilimento.

Intanto il 27% degli alunni interessati sembra non avere dispositivi sufficienti come computer o tablet ed il 23% ha problemi di connessione.

I ragazzi, al di là della staticità davanti ad uno schermo, si trovano con un ulteriore carico di lavoro determinato dalla necessità di trascrivere sul computer tutti i compiti di elaborazione personale assegnati dai docenti i quali forse dovrebbero contenerli un attimo proprio in ragione delle difficoltà che tanti loro allievi manifestano.

L’insegnamento on line, come si vede, manca di quell’umanità relazionale del rapporto che si instaura in classe tra educatori e studenti e di questi tra loro, ma presenta gravi carenze non solo nei collegamenti, ma anche e soprattutto nei luoghi domestici non sempre riservati in cui gli alunni sono costretti a seguire le lezioni.

Sono mancate nel più dei casi le esercitazioni di laboratorio, il lavoro pratico nelle attività artistiche e musicali come nella pianificazione della ricerca culturale soprattutto quando questa è organizzata in gruppo; le difficoltà poi si sono notate in maniera peculiare nel lavoro di recupero e in particolare con ragazzi diversamente abili.

Gli insegnanti si sono impegnati senza risparmio di tempo ed energie, ma la Dad davvero presenta grandi difficoltà in quello che è uno dei ruoli fondamentali degli educatori ovvero la traducibilità del sapere in rapporto alla peculiarità di ogni alunno attraverso gli strumenti di una didattica individualizzata.

Tali precisazioni appaiono quantomeno opportune visto che già in tanti, talora evidentemente senza conoscere la complessità del fenomeno educativo o per motivi di natura economica, parlano della possibilità di diffondere la Dad anche oltre il periodo di pandemia perché in essa individuerebbero nuove e inedite opportunità educative.

Una tale forma d’insegnamento ha al contrario delle palesi limitazioni di ordine psicologico, tecnico e pedagogico che ne riducono l’efficacia anche e forse soprattutto nella cosiddetta didattica mista con parte della classe in presenza e l’altra collegata.

Dopo un anno di esperienza la Dad, pure subita obtorto collo dai docenti, sta stressando tutti, ma in particolare i ragazzi che non accettano più di vivere in una dimensione ovattata e vogliono tornare in aula per riconquistare relazioni profondamente umane.

Ovviamente non si tornerà a fare lezione in classe se l’azione convergente del personale scolastico, del movimento degli studenti e delle famiglie non rivendicherà un pieno diritto allo studio di cui i governi dell’Italia si sono disinteressati da decenni.

L’istruzione e la cultura sono l’anima di un popolo e vanno assicurate dedicandovi la massima cura.

Le difficoltà per raggiungere tale obiettivo e che permangono intatte da mesi derivano da edifici con aule non idonee al distanziamento, dalla palese impossibilità o incapacità di razionalizzare il trasporto pubblico per i fuori sede, dall’assoluta assenza di un servizio di medicina scolastica e dal ritardo con cui si sta procedendo alla somministrazione del vaccino al personale.

Le palesi problematicità per la riapertura in sicurezza delle scuole sono figlie della condizione di abbandono in cui sono state tenute la scuola e l’istruzione da una politica inetta, ma anche da un’assenza forte di rivendicazione di un diritto fondamentale come quello alla cultura da parte delle famiglie e del personale scolastico.

Lo scorso anno tanta parte dei fondi disponibili è stata sperperata in spese del tutto inutili come i famigerati banchi a rotelle la cui inefficacia è apparsa talmente manifesta che in molte regioni non sono mai stati usati e sono finiti ammassati in depositi dai quali probabilmente usciranno solo per essere smaltiti.

Assolutamente non potremo più permetterci tali errori perché la scuola ha davvero bisogno di una governance molto razionale per uscire dalle secche in cui si trova.

Durante la pandemia e in particolare la scorsa estate abbiamo riaperto diverse attività e talune non certo indispensabili, cosa per la verità che ancora oggi diverse forze politiche e presidenti delle regioni rivendicano, ma non siamo stati capaci di preoccuparci della scuola e dell’istruzione che sono forme e sostanze fondamentali della nostra esistenza, mentre talvolta le abbiamo abbandonate ad una marginalità di cui dovremmo solo vergognarci.

Il primo problema da risolvere dunque è quello di predisporre le condizioni elementari per la riapertura delle scuole con una cultura operativa che purtroppo in Italia ancora è carente.

In questi giorni si discute molto sulle voci di una possibile diversa articolazione dell’anno scolastico.

Credo si tratti di un problema reale la cui discussione non va respinta pregiudizialmente; tuttavia non può essere lasciato ad improvvisazioni dettate dall’alto, ma va affrontato e risolto con il contributo dei professionisti che vivono nella scuola e ne conoscono pienamente le dinamiche di funzionamento e con il coinvolgimento pieno di studenti e famiglie.

Abbiamo bisogno ancora di rinnovare un patrimonio edilizio pubblico vecchio, poco funzionale e talora del tutto inadeguato riqualificando le numerose sedi.

Il nostro sistema scolastico, notoriamente meno efficace e funzionale rispetto al livello europeo ed Ocse, dev’essere migliorato e potenziato eliminando le disuguaglianze territoriali, migliorando l’offerta formativa, riducendo la dispersione e soprattutto il fenomeno preoccupante dell’analfabetismo funzionale presente in particolar modo non solo nella comprensione dei testi, ma anche sul piano digitale.

Abbiamo una classe docente molto anziana, ma non ci preoccupiamo di studiare forme di modifica delle classi di laurea, di reclutamento, di aggiornamento e di carriera capaci di darci docenti sempre più preparati e motivati in grado di operare non solo nel lavoro d’inclusione degli allievi, ma soprattutto nella loro promozione e maturazione culturale; non possiamo dimenticare ancora che c’è la necessità di avere in tutto il Paese gli asili nido e le scuole dell’infanzia pubbliche, ma anche una diffusione del tempo pieno che può rendere più efficiente il processo educativo.

Ciò che poi purtroppo ancora manca completamente in Italia è un sistema di educazione permanente che permetta a tutti, particolarmente in età adulta, di evitare qualsiasi forma di analfabetismo funzionale di ritorno; oltretutto ciò non solo consentirebbe un grande miglioramento del livello culturale della popolazione, ma creerebbe certamente nuove possibilità occupazionali.

È evidente che tali innovazioni richiedono una rivalutazione dello status e del ruolo degli insegnanti che vanno gratificati con retribuzioni agganciate ai livelli europei chiarendo che il loro lavoro non è costituito solo dalle ore d’insegnamento frontale, ma da tante attività che vanno dalla correzione di elaborati e verifiche alla preparazione delle attività didattiche fino allo studio continuo per l’aggiornamento personale sul piano culturale, psicologico, pedagogico e didattico.

Il nascente governo Draghi ha posto l’istruzione,, insieme alla sanità ed allo sviluppo economico, tra gli aspetti più importanti della vita collettiva di cui occuparsi.

Speriamo che non resti solo una bandiera sventolata per fini d’immagine, ma diventi un obiettivo concreto su cui impegnarsi con decisione.

La bozza di Recovery Plan predisposta dal governo Conte prevedeva per l’istruzione un budget di 28,5 miliardi di euro da suddividere nei diversi aspetti d’intervento tra i quali alcuni di quelli da noi sottolineati non sono indicati assolutamente neppure per accenni.

Nonostante l’idea sembri tramontata, se il governo italiano decidesse di servirsi anche del MES oltre che del Recovery Fund, certamente i fondi a disposizione per l’istruzione potrebbero aumentare soprattutto per l’efficientamento e la messa in sicurezza degli edifici scolastici che non sembrano rientrare nei capitoli di spesa previsti nel Recovery Plan.

L’augurio è che la governance attuativa dei finanziamenti previsti venga affidata ad un’equipe capace di redistribuirli nelle diverse aree d’intervento al fine di rendere il sistema formativo italiano utile e funzionale alla piena maturazione culturale dei cittadini destinando i fondi soprattutto nei territori in cui si manifestano le carenze più eclatanti.

(Umberto Berardo)

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