Mino Pecorelli, la “penna” vittima del Palazzo

Carmine Pecorelli, detto Mino, nasce a Sessano (Isernia) il 14 settembre 1928. A diciassette anni se ne va di casa, dal Molise, per andare a combattere contro i nazisti.
Nel 1945 si trasferisce prima a Velletri (Roma) e poi a Roma. Il padre, farmacista, muore giovane, ad appena 37 anni.
Nella capitale Mino Pecorelli frequenta il liceo classico, quindi si laurea in giurisprudenza e diventa avvocato, svolgendo la professione con successo nello studio legale di Cesco Nigro. Esperto di diritto fallimentare, introdotto nel settore dei fallimenti fraudolenti, comincia a scoprire i legami tra gli ambienti della finanza e quelli politici.
Molto cortese, colto, di buon gusto, abbronzato, monarchico, uomo di destra, ma democratico e avverso a personaggi di destra che giudica “non puliti”, diviene capo ufficio stampa del ministro Fiorentino Sullo, cominciando ad innamorarsi del giornalismo.
Nel 1968 fonda la rivista “Op”, ovvero “Osservatorio politico”. Dapprima come agenzia stampa e poi come settimanale. Il periodico indaga sui malaffari (Mifobiali, Italcasse, Sir, Scandalo petroli, ecc.) nonché sulle vicende che portano alle dimissioni il presidente Leone.
Pecorelli s’infiltra negli ambienti più putridi per acquisire segreti scottanti. Ha informatori nei servizi segreti, apprende verità scomode, spesso viene strumentalizzato. Viene definito il “poliziotto della notizia”.
Il giornale per qualcuno è uno strumento di ricatto, per altri di condizionamento, per altri ancora di moralizzazione. Indubbiamente è solito frequentare i politici che contano, chiede loro abbonamenti, finanziamenti per il giornale.
Pecorelli ha una baldanza che gli piace, si diverte nel rischio, in un gioco, all’interno del potere, che diventa via via sempre più pericoloso.
Nella requisitoria del processo di primo grado, il pm Alessandro Cannevale definisce Pecorelli il precursore di un giornalismo “aggressivo, impertinente, spregiudicato”.
Nel linguaggio giornalistico, dire “alla Pecorelli” diventa ben presto sinonimo di articoli con scopi intimidatori. Perché non è mai chiaro fino a che punto il giornalista molisano fa emergere il malaffare per amore della verità o per rafforzare il proprio ruolo e quello del suo giornale. Indubbiamente ha rapporti con Nicola Falde, colonnello del Sid dal 1967 al 1969, con Vito Miceli, capo del servizio segreto militare dal 1970 al 1974, fa parte della loggia P2, per cui s’ipotizzano rapporti con Licio Gelli. Ma è anche una persona perbene, colta, amante della giustizia. Andreotti
è uno dei bersagli preferiti di “Op”. Pecorelli lo chiama “Divo Giulio”, nomignolo che ha un certo successo. Altri soprannomi di cui sono pieni i suoi giornali sono “Padrino”, “Super-padrino” e “piscione”. Non mancano velate accuse all’entourage andreottiano, da Vitalone a Evangelisti.
Nel gennaio 1979 sembra che proprio Evangelisti e Vitalone incontrano Pecorelli a cena, nel tentativo di arrivare a una tregua. Insomma Pecorelli gioca con il fuoco. Lo stesso Andreotti sembra che invii al giornalista-nemico, con cui condivide frequenti emicranie, delle pastiglie contro il mal di testa. Ma dalle sue colonne non risparmia attacchi anche al generale Dalla Chiesa, indicandolo come il “Generale Amen”. Dal marzo 1978, dal momento in cui viene rapito Moro, “Op” diventa settimanale. Il giornale pubblica tre lettere inedite del leader Dc, spedite a familiari e amici. Lo stesso Pecorelli profetizza la morte di un generale: quella di Dalla Chiesa. E proprio mentre il giornalista molisano indaga sui segreti del delitto Moro, sconvolto per aver scoperto alcune scottanti verità, preoccupato, timoroso e convinto di finire ammazzato, avviene la sua condanna. Una pubblicità del suo giornale recita: “Op, una raffica di notizie”, con tanto di fori di proiettile a disegnare il logo della testata. Un’amara preveggenza.
Nel giornale compare anche una nota “a futura memoria” – così viene intitolata – dopo aver ricevuto minacce: “I nostri lettori e coloro che ci stimano saprebbero riconoscere immediatamente la mano che ha armato chi vorrà torcerci anche solo un capello”. La sera del 20 marzo 1979, Mino Pecorelli, nel quartiere Prati di Roma, viene ucciso con quattro colpi di una pistola calibro 7,65: uno in faccia e tre nella schiena. Viene trovato steso nella sua Citroen, parcheggiata in via Orazio, a due passi da via Tacito dove sta la redazione di “Op”. Ciro Formuso, carabiniere ausiliario di passaggio in via Orazio, alle 20.40 segnala il delitto alla sala operativa dei carabinieri: il vetro dell’automobile spezzato, la portiera aperta, sangue dappertutto, un cadavere rannicchiato. Il delitto cade in una settimana ricca di eventi politici e giudiziari. Il giorno dopo, 21 marzo, Andreotti vara il suo quinto governo tripartito (Dc-Psdi-Pri), con La Malfa vicepresidente (il leader repubblicano morirà appena cinque giorni dopo).
Il 26 marzo scoppia lo scandalo alla Banca d’Italia, in cui vengono incriminati Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, i quali avevano promosso indagini su altri istituti di credito come l’Italcasse e il Banco Ambrosiano, rifiutando anche di revocare il fallimento delle banche Sindona. Il magistrato che indaga su di loro è Claudio Vitalone.Verranno prosciolti completamente l’11 giugno 1981. Il 20 settembre Carlo Azeglio Ciampi verrà nominato governatore della Banca d’Italia, con Lamberto Dini direttore generale.
Subito dopo il delitto, viene aperta un’inchiesta a carico di ignoti affidata al magistrato di turno, dottor Mauro, e a Domenico Sica. Nell’indagine vengono coinvolti Massimo Carminati, Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti. Il 15 novembre 1991 il giudice istruttore Francesco Monastero proscioglie tutti gli indagati per non avere commesso il fatto.
Il settimanale “Panorama”, subito dopo il delitto, pubblica in copertina la scena del delitto con questo titolo: “Questo morto non vi farà dormire”. Ma forse sarebbe stato più corretto: “Non vi ha fatto dormire”. Nei mesi a seguire vengono fuori le ipotesi più variegate e stravaganti: Gelli, la mafia, i petrolieri, i terroristi rossi, i neri, la Guardia di finanza, fino ai mercanti del porno e addirittura ai falsari di De Chirico. Ben presto, però, si comincia a mettere in relazione l’omicidio Pecorelli con quello di Moro. Steve Pieczenick, uno dei massimi esperti americani di terrorismo, chiamato dalle autorità italiane a fare parte del comitato di crisi istituito subito dopo il sequestro di Aldo Moro, dichiara che Moro poteva essere restituito alla vita politica, ma ai suoi danni ci fu “un complotto ad altissimo livello” (Corriere della Sera del 18 marzo 1998).
Insomma l’omicidio di Moro e quello di Pecorelli potrebbero davvero essere collegati tra loro. Di certo Pecorelli sapeva molte cose sul delitto Moro. Dal giornale lanciava ambigui messaggi. Nei numero 27, 28, 29 di “Op”, ottobre 1978, il giornalista va giù duro. Scrive: “Non credo all’autenticità del memoriale, o alla sua integrità, e alle banalità che sono state riportate alla luce. Moro non può aver detto quelle cose e solo quelle cose arcinote; non era stupido, dicendo solo quelle cose, sapeva che non sarebbe uscito vivo dalla prigione. Quindi c’è dell’altro. Così ora sappiamo che ci sono memoriali falsi e memoriali veri. Questo qui diffuso è anche mal confezionato.
Ma con l’uso politico di quello vero, e anche con il ritrovamento di alcuni nastri magnetici dove “parla” a viva voce Moro, ci sarà il gioco al massacro. Inizieranno i ricatti. Con questa parte recuperata, la bomba Moro non è scoppiata come molti si aspettavano. Giulio Andreotti è un uomo molto fortunato”. Il 6 aprile 1993 Tommaso Buscetta, interrogato dai magistrati di Palermo, parla per la prima volta dei rapporti tra politica e mafia e racconta, tra le altre cose, di aver saputo dal boss Gaetano Badalamenti che l’omicidio Pecorelli sarebbe stato compiuto nell’interesse di Giulio Andreotti. Due giorni dopo il verbale del pentito viene inviato dai pubblici ministeri siciliani a quelli di Roma che il 14 aprile iscrivono Andreotti nel registro delle notizie di reato. Il 29 luglio 1993 il Senato concede l’autorizzazione a procedere per l’ex presidente del Consiglio. In base alle dichiarazioni di Buscetta il pm Giovanni Salvi indaga anche Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò.
Agosto 1993: le dichiarazioni dei pentiti della banda della Magliana, in particolare quelle di Vittorio Carnovale, coinvolgono l’allora pm romano Claudio Vitalone.
Il 17 dicembre 1993 l’inchiesta arriva alla procura di Perugia, competente a indagare sui magistrati romani. Il 20 luglio 1995 il procuratore capo Nicola Restivo e i sostituti Fausto Cardella e Alessandro Cannevale depositano la richiesta di rinvio a giudizio, con l’accusa di omicidio, per Andreotti, Vitalone, Badalamenti, Calò, La Barbera e Carminati. Quest’ultimo chiede e ottiene di essere processato con il rito immediato, saltando così l’udienza preliminare. Il 5 novembre 1995 il gip Sergio Materia rinvia a giudizio gli altri cinque imputati.
L’11 aprile 1996 comincia il processo. A presiedere la Corte d’assise è Paolo Nannarone, che però risulta incompatibile in base alla sentenza della Corte costituzionale sul doppio ruolo dei giudici. Lo sostituisce Giancarlo Orzella. Il 30 aprile i pubblici ministeri chiedono l’ergastolo per tutti gli imputati.
Il 24 settembre 1999 la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati “per non avere commesso il fatto”.
Il 13 maggio 2002 comincia il processo d’appello.
Il 17 novembre 2002, in appello, Andreotti e Badalamenti vengono condannati a 24 anni di reclusione.
Il 30 ottobre 2003 la Cassazione, a sezioni unite, primo presidente Nicola Marvulli, annulla senza rinvio la condanna a 24 anni inflitta al senatore a vita Giulio Andreotti dalla corte d’Assise d’appello di Perugia. Marvulli e gli altri otto consiglieri assolvono con formula piena anche il boss Tano Badalamenti. L’assoluzione con formula piena arriva dopo la sollecitazione fatta dal procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani, che aveva chiesto l’annullamento definitivo della sentenza di condanna. Il cadavere del giornalista molisano torna ad essere, forse per sempre, un cadavere qualunque.
“Un cadaverino qualsiasi – come amaramente lo definisce Rosita Pecorelli, sorella del direttore di “Op”, sempre presente nelle lunghe ed estenuanti vicende giudiziarie fino al definitivo atto della Cassazione.

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