COMMENTI / l’Inghilterra torna inglese…



ROMA – “Il genio dell’euroscetticismo è uscito dalla lampada” ha sentenziato Farage. Dunque i britannici hanno scelto la Brexit. Dopo oltre 44 anni dalla firma del trattato di adesione (22 gennaio 1972). Lo hanno fatto nel segno dell’indipendenza, dell’orgoglio patrio, ma anche – con un po’ di romanticismo tipicamente british – della nostalgia per gli antichi fasti. In sostanza hanno detto no a questa Europa contemporanea, decisamente invadente e arrogante, che ormai determina oltre la metà della legislazione britannica ed è ben rappresentata dalle altezzose dichiarazioni del presidente Juncker del “fuori significa fuori” (e, quasi certamente, sarà accontentato). Anche il fatto che nessun leader delle istituzioni comunitarie abbia commentato a caldo il divorzio (neanche un cinguettio su Twitter) la dice lunga sulla difficoltà che serpeggia a Bruxelles.
Al di là dei terremoti finanziari ampiamente previsti, della sterlina ai minimi storici sul dollaro, delle dimissioni di Cameron, i veri problemi ora ce l’avrà l’Unione europea che dovrà affrontare il presente, ma soprattutto le possibili ripercussioni future, non ultime un effetto domino di altri Stati (la prima a paventare un analogo percorso è stata l’Olanda, tra le nazioni più penalizzate dall’uscita dei britannici dall’Unione).
Ora il Regno Unito ha formalmente due anni di tempo per fissare termini e condizioni della separazione dall’Unione europea. Come prevede l’articolo 50 del trattato europeo, la Brexit deve avvenire entro due anni dalla notifica dell’intenzione di recesso. Potrebbe esserci qualche slittamento – ad esempio con i 27 che all’unanimità potrebbero concedere un prolungamento delle trattative di uscita – ma non si potrà andare comunque oltre la fine dell’attuale legislatura del parlamento europeo, cioè maggio 2019. meno di tre anni.
La fuoriuscita britannica avviene nonostante i tanti benefici ottenuti in sede comunitaria negli ultimi anni dal Regno (nonché la non adesione all’euro), ma – al contrario – Londra può liberarsi del fardello di esserne il quarto finanziatore netto: nel 2014 ha versato 13 miliardi di sterline a fronte di un ritorno di circa quattro miliardi, per lo più destinati al mondo agricolo; ciò aprirà l’ennesimo problema ai conti comunitari.
Al di là delle inevitabili e consumate analisi con il richiamo delle tante distorsioni dell’Unione europea, dalla vicinanza alle banche, alle lobby, alle istituzioni finanziarie al mancato rispetto delle identità locali fino all’incapacità di gestire l’immigrazione e le disuguaglianze sociali, è al centro delle attenzioni di molti cittadini, soprattutto italiani, il prossimo futuro per chi ha scelto Londra per studiare o per lavorare. Cosa cambierà per loro?
Nessuno si sbilancia. Per lo studio cambierà probabilmente poco. Ma già si parla della sospensione del prestito – al momento è esteso a tutti gli europei – per coprire le 9 mila sterline annue di retta universitaria, da restituire solo dopo la laurea, a rate e soltanto se si ha un lavoro. Insomma frequentare l’università a Londra, per un italiano, diventerà probabilmente più caro. Cambierà poco anche per il turismo. Per il lavoro, invece, potrebbero complicarsi le cose per chi sogna Londra. Anche perché il nodo è legato all’agognata richiesta di doppia cittadinanza: oggi la condizione per ottenerla – in quanto è prevista dalla legge – è quella di pagare le tasse in Gran Bretagna per almeno cinque anni. Poi, per l’ottenimento, ci vuole un anno di tempo per l’iter burocratico e almeno mille sterline di obolo. L’alternativa è il visto di lavoro, da rinnovare ogni due-tre o anche cinque anni, presentando una richiesta da parte del proprio datore di lavoro. Per il futuro si prevede una stretta: non è escluso, secondo modelli sperimentati altrove, che il lavoro bisognerà ottenerlo prima di partire. Ma ciò potrebbe determinare contraccolpi: i giovani italiani potrebbero optare per Paesi alternativi come l’Olanda o l’Australia. Dove il clima è anche migliore.

P.S. Nel collegamento di pochi minuti da Londra, la giornalista de La7 Gabriella Caimi ha utilizzato per ben tre volte l’aggettivo “drammatico”. Ma perché non ricordarle che il voto, al di là del risultato, è indice di democrazia?

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