Inpgi, che farne?



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La notizia del rinvio a giudizio di Andrea Camporese, presidente dell’Inpgi (l’istituto di previdenza dei giornalisti), accusato di concorso in truffa ai danni dell’Istituto da lui presieduto e di corruzione (tra l’altro l’Inpgi è l’unico dei tre istituti coinvolti nello scandalo a non costituirsi parte civile a tutela di tutti gli iscritti) sovraccarica il clima elettorale per il rinnovo dei vertici dell’Istituto di previdenza (a fine febbraio 2016), con una campagna elettorale che non risparmia le caselle e-mail dei giornalisti italiani.
Camporese è accusato di aver utilizzato, anche con un tornaconto personale, diversi milioni dell’Inpgi2, cioè la gestione dei “giornalisti poveri”, quelli oggi in maggioranza, non dipendenti dei grandi editori o della Rai.
A caratterizzare l’attuale fase è proprio la frattura tra un gruppo sempre più minoritario di giornalisti (e pensionati) privilegiati (la retribuzione media dei dipendenti era di 62.459 euro nel 2012) e il grande esercito di collaboratori precari iscritti all’Ordine e – loro malgrado – alla cassa previdenziale Inpgi2, con una media di 11.278 euro di compensi nel 2012 ed oggi in caduta libera (la metà è sotto i cinquemila euro).
Il paradosso è che entrambe le categorie sono scontente. Ma ovviamente per motivi diversi.
I giornalisti “di serie A”, i dipendenti, spesso con tessera di partito in tasca, denunciano il buco di bilancio dell’Inpgi, che metterebbe a rischio le loro future (e corpose) pensioni. Anche perché il buco di bilancio dell’Istituto, sempre crescente negli ultimi anni, nel 2015 – secondo le ultime indicazioni – dovrebbe raggiungere i 106,5 milioni di euro. Con il timore, per i giornalisti dipendenti, che l’Inpgi venga fagocitato dall’Inps, con buona pace di tanti privilegi.
Ben più concrete le motivazioni dei giornalisti autonomi e parasubordinati, quelli che stanno versando parte dei propri compensi all’Istituto senza una certezza pensionistica: infatti occorrono almeno 20 anni di contributi versati – stipendio di circa 15mila euro per accumulare un anno – per riavere di fatto i propri soldi ma spalmati – dopo i 67 anni di età – in 23 anni. Cioè bisogna arrivare a 100 anni per riavere quanto versato. E nemmeno tutto: parte dei versamenti non entrano nel montante, ad esempio quelli per mantenere la struttura dell’Inpgi o per una sempre più onerosa e inconcepibile “indennità di maternità”, ormai superiore ai 40 euro annui, cioè il pagamento di diversi articoli (sic). La pensione agognata, naturalmente, è basata sul sistema di calcolo interamente contributivo.
L’esercito dei giornalisti precari cresce in modo spaventoso. Se fino al 2008 il numero dei dipendenti era superiore a quello degli autonomi, oggi le entità si sono nettamente ribaltate: due autonomi ogni dipendente.
La differenza tra le due categorie può essere espressa da due esempi: diversi analisti, tra cui il giornalista Carlo Tecce sul “Fatto quotidiano”, hanno fotografato la “pacchia” per i giornalisti Rai. Ad inizio 2014 erano ben 1.581 i giornalisti assunti con contratto a tempo indeterminato. La metà di questi guadagnava ben 105mila euro l’anno, oltre a essere caposervizi (279). I dirigenti giornalisti, ovvero dai capiredattori in su, erano 303 e guadagnavano dai 120mila ai 240mila euro l’anno. Poi 64 inviati speciali da 126mila euro ciascuno. I 688 redattori ordinari arrivavano in media a 85mila euro. Il Tg1 aveva il doppio dei giornalisti del Tg5. Ed oggi le cose non sono molto cambiate.
Ben diversa la situazione dei collaboratori. Indicativa la fotografia fatta a gennaio 2016 da Lara Lago sull’ottimo “La Voce di New York”. Racconta che “Il Resto del Carlino” paga 2 euro e 50 per articoli fino agli 855 caratteri, 6 euro per pezzi fino a 5.150 battute, 9 euro per articoli più lunghi. All’Ansa ogni lancio viene pagato cinque euro. “La Nuova Sardegna”, del gruppo editoriale L’Espresso, paga 2,58 euro qualunque pezzo.
Enzo Iacopino, al vertice dell’Ordine dei giornalisti, ha parlato di “schiavitù codificata in contratti”, con 4.920 euro lordi l’anno nel civile Nordest (nelle testate Finegil, Gruppo Espresso/Repubblica) per un lavoro senza limiti né di orario, né di quantità di articoli, tasse, spese, oneri previdenziali, foto e video compresi”. Gli autonomi, infatti, hanno spese a proprio carico e una netta disparità di diritti, tutele e forza di contrattazione rispetto ai colleghi dipendenti. Condizioni di debolezza, di ricatto occupazionale e sfruttamento del lavoro, che ledono la libertà e la qualità dell’informazione.
Nonostante questa drammatica situazione, in Italia il numero dei giornalisti continua a crescere: c’è un giornalista ogni 526 abitanti, contro uno su 1.778 in Francia, uno su 4.303 in Cina e uno ogni 5.333 negli Stati Uniti. Anche perché l’Ordine, atipicità nello scenario europeo, ogni anno pretende una quota superiore ai 100 euro dagli oltre centomila iscritti. In questo senso, più sono e meglio è.
Allora? Non sarebbe meglio, per i tanti autonomi e subordinati, chiudere del tutto queste strutture corporative anacronistiche, che costano soldi – e tanti – a chi fa questo mestiere in forma autonoma, offrendo in cambio solo incertezze? Non sarebbe stato più utile e giusto, da parte di chi ha preteso voti e poltrone, intervenire proprio sulle nette disparità tra Inpgi1 e Inpgi2, perlomeno attenuandone le differenze? E per riconoscere questo sempre più difficile mestiere, tra quotidiani scesi sotto i tre milioni di lettori al giorno e storiche testate che chiudono, non sarebbe sufficiente attestare lo svolgimento della professione tramite la natura dei compensi in denuncia dei redditi?
Se c’è il collega che, come al solito, chiede il voto per fine febbraio per “determinare il cambiamento”, stavolta è meglio rimanersene a casa…
Ah, per la cronaca, il processo al presidente Camporese avrà inizio il 21 aprile 2016. Auguri.

Giuseppe De Filippo

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