Schietta presentazione dell’Inpgi2 (“cassa” dei giornalisti)



ROMA – Si chiama Inpgi2. E’ la cosiddetta “gestione separata” di previdenza dei giornalisti. Istituita dal decreto legislativo 103/96, vi sono obbligatoriamente sottoposti i giornalisti “autonomi”. Cioè in stragrande maggioranza i “precari”, oggi la fetta più consistente e crescente degli iscritti all’Ordine dei giornalisti.
Questi lavoratori, già vessati da una quotidianità eternamente instabile e “temporanea” e dal futuro incertissimo anche a 50 anni, sono costretti ad imbattersi nell’Inpgi2. Cioè a “devolvere” forzatamente il 12% di tutti i propri – spesso magrissimi – guadagni (più altri “balzelli”) alla Cassa di categoria. In cambio, nella maggior parte dei casi, di pensioni davvero ridicole, da riscuotere obbligatoriamente dopo i 65 anni di età (per ora).
Un esempio? Prendiamo un giornalista che a 35 anni cominci a versare all’Inpgi2, attivando quindi la propria posizione previdenziale. Poniamo che guadagni 1.000 euro al mese, 12mila all’anno (includiamo anche agosto…). Di questi soldi sarà costretto a versare 1.200 euro all’anno all’Inpgi; più un 2%, che in teoria dovrebbe essere pagato dall’editore, ma nella realtà non sempre è così. Ribattono all’Inpgi: “Se l’editore non lo paga, potete sempre rivolgervi a noi per riaverli”; come se rivolgersi all’Inpgi per denunciare un editore non abbia conseguenze nei già fragili rapporti di lavoro.
Fatti due calcoli, il nostro 35enne avrà la pensione a 65 anni, dopo 30 anni di contributi versati annualmente. Il suo “montante” (o “castelletto”), cioè la somma dei contributi rivalutati e decurtati del contributo maternità (e di eventuali sanzioni), arriverebbe a circa 50mila euro (previsione ottimistica). Moltiplicando questo dato per l’attuale coefficiente dello 0,0562% (uguale a quello dell’Inps – quindi nessun beneficio – e che probabilmente scenderà pure nei prossimi anni), andrà a prendere meno di 200 euro al mese di pensione. La pensione sociale Inps garantisce più del doppio.
Anche se ormai sono gli stipendi di molti giornalisti – e non quelli dei supergarantiti dipendenti dell’Inpgi – ad assomigliare a pensioni sociali. C’è un altro elemento emblematico: di ciò che si versa, una buona fetta non è finalizzato alla propria pensione, ma ad altro. Ad esempio a mantenere lussuosi uffici e un esercito di dipendenti (i più, “esemplari” per gentilezza e disponibilità…). Il 2% – un sesto dell’intero versamento! – finisce tutto proprio in questa voce. Probabilmente non esiste al mondo un ente previdenziale tanto rapace da trattenersi ben un sesto delle somme accantonate da un giornalista precario per le proprie spese di funzionamento e per altre spese, discrezionali del consiglio d’amministrazione e comunque sottratte al “castelletto” individuale. Spese di gestione dell’Inpgi2 che lievitano all’inverosimile: i costi di struttura, intorno ai 2,3 milioni di euro (!!!), registrano un incremento tra il 2009 e il consuntivo 2008 intorno al 10,0% (+6,5% per i costi del personale). Previsione di aumento dei costi anche per il 2010.
Che il balzello del 2% tocchi al free lance è un abominio. E l’obbligatorietà di avere a che fare con questo ente è un’offesa alla giustizia in un settore dove un pensionato porta a casa pesanti assegni mensili mentre un giovane, specie se lavora per siti internet, intasca ormai anche un euro ad articolo (sul quale deve naturalmente pagare l’Inpgi2).
La percentuale di tutti i propri guadagni giornalistici che finisce all’Inpgi2 comprende anche altri “balzelli”, come il “contributo maternità”, cui sono tenuti anche i maschietti in una sorta di “solidarietà” (“impari” opportunità?) per le fertilissime colleghe che decidono di aprire le gambe e “riprodursi”.In sostanza, un precario che vive di collaborazioni si vede prima decurtare lo stipendio dalla ritenuta d’acconto, poi da conguaglio, e infine dall’Inpgi2. Ciò che gli rimane, il più delle volte, non somiglia nemmeno ad una pensione sociale.Molti si domandano: non sarebbe preferibile, con questi soldi, sottoscrivere polizze assicurative collettive che forniscono pari o migliori prestazioni? O meglio, visto che i soldi sono miei e me li sudo in un mercato del lavoro sempre più difficile (e nessuno ti aiuta), avrò almeno il diritto di gestirmeli come voglio, scegliendo se fare un’assicurazione privata, se investire in fondi obbligazionari, se sputtanarmeli in viaggi o in ragazze dell’Est? L’inferno sanzionatorio
E invece l’Inpgi2 spicca per un “regolamento interno” – scritto da loro stessi e costantemente citato dai dipendenti come fosse la Bibbia – che brilla per gli aspetti sanzionatori ai poveri giornalisti, soprattutto a quelli precari, che paradossalmente contribuiscono a mantenere la baracca. La stessa fermezza non sempre si registra nei rapporti con gli editori.
Eloquente l’esempio delle sanzioni per comunicazioni e pagamenti oltre i termini indicati dall’istituto: i tassi toccano il 15% ed anche il 20%. Ho sottoposto l’amara realtà ad un amico esperto della materia, detto “Casamonica”, e ha convenuto con me sulla discutibilità delle percentuali applicate.
E’ in sostanza accettabile che una dimenticanza equivalga ad un salasso economico per un “debole” che già non naviga nell’oro? Specie in tempi in cui tutto avviene on-line, senza ricevere lettere di avviso o bollettini (come invece è indicato nel sito dell’Inpgi2)?
Già Vera Paggi, consigliere di amministrazione Gestione Separata Inpgi, scriveva tempo fa che “centinaia di milioni sono state messe a bilancio nel consuntivo 2000 per sanzioni”. Sono la conseguenza di errori, dimenticanze, disinformazione di molti colleghi che si fanno la dichiarazione dei redditi da soli.
Tali atteggiamenti gettano ombre su questa Cassa di previdenza, favorendo le scelte dei povericristi di tenersene alla larga, ad esempio cancellandosi dall’Ordine (ma non è facile, vista la legge) o attivando collaborazioni al di fuori della sfera giornalistica.
L’immagine dell’Inpgi2? Basta riportare qualche dichiarazione pescata nei tanti forum di giornalisti su internet, ad iniziare da quello storico del “Barbiere della Sera” per rendersi conto di ciò che serpeggia. Ecco qualche perla: “Cari colleghi, volevo intervenire sulla dolorosa questione dell’Inpgi2. Alla domanda «Contributo o rapina?», rispondo senza ombra di dubbio «Rapina»”. Ancora: “Ora che iniziano a lamentarsi anche gli articoli 1 forse ci si renderà definitivamente conto quanto l’Inpgi 2 sia una fregatura. Nella precedente polemica (ottobre) erano stati coinvolti solamente i free lance, così in molti avranno pensato al lamento di un gruppo di pezzenti. Ora la lunga mano della cassa di previdenza arriva anche agli iper garantiti e magari il problema verrà visto e affrontato in maniera più seria”. Ancora: “L’ente – dopo aver visto calare le proprie entrate perché sono calati i giornalisti assunti – ha pensato bene di sopravvivere. Se si è nella condizione di cercare la sopravvivenza vuol dire che si è in un momento di difficoltà, ed è quindi più facile rivolgersi ai deboli (i free lance) che ai forti (gli editori)”. Giornalistificio
Sempre più persone, infatti, si rendono conto che l’iscrizione all’Ordine è auspicabile, anzi inevitabile, soprattutto per chi ottiene contratti giornalistici. Per molti altri, invece, l’iscrizione, mossa inizialmente da ambizione o da una scommessa sul futuro (di cui si ignorano le conseguenze), finisce per tradursi in soldi da cacciare continuamente per mantenere uffici burocratici e “simpatici” dipendenti. E non appena ci si rende conto che i balzelli sono tanti (oltre 100 euro di tassa annua all’Ordine, più i pagamenti all’Inpgi, sanzioni comprese), è allora legittimo porsi qualche domanda sulla “convenienza” di un percorso ad ostacoli, alcuni davvero imprevedibili.
Cancellare l’anacronistico Ordine dei giornalisti e ridimensionare le Casse è un desiderio che incontra tante adesioni.
Gli altri ordini professionali, d’intesa con le università, perseguono un’accorta politica di numeri “controllati” per l’accesso alla professione. Soltanto l’Ordine dei giornalisti fa una politica dissennata (ormai ci si avvicina ai 110mila giornalisti, un’assurdità) e riversa sul mercato centinaia di disoccupati l’anno, destinati a pesare sull’Inpgi e ad inflazionare la domanda di lavoro, con il naturale effetto di farne precipitare il valore di mercato.
Grazie all’atteggiamento dell’Ordine dei giornalisti l’Italia è divenuta oggi un formidabile “giornalistificio”. Praticamente chiunque può iscriversi all’albo senza il minimo sforzo. Addirittura è sufficiente che un direttore attesti che alcuni scritti appartengano a Tizio o a Caio (firmandogli e facendo risultare un pagamento) perché questi si ritrovino il loro bel tesserino. Anche se non sanno scrivere minimamente in italiano. Per essere ufficialmente “giornalisti” è sufficiente essere “pubblicisti”; e per diventare “pubblicisti”, appunto, bastano un paio d’anni di collaborazioni formalmente “retribuite”. Al di là di apprendistati, capacità, qualità. Così siamo un po’ tutti giornalisti, ufficialmente oltre 108mila persone in Italia, dilettanti e pensionati, tanti doppiolavoristi e poeti di strada, hobbysti e presenzialismi. Universo abitato da tanti personaggi disposti perfino a lavorare gratis, pur di vedere il proprio nome stampato sul giornale.
Essere iscritti all’Ordine, ovviamente, non garantisce l’acquisizione di alcuna minima soglia di capacità professionale. Né agevolazioni sul fronte del lavoro (anzi…). Infatti alcuni editori preferiscono far lavorare gente non iscritta all’Ordine per evitare vertenze e problemi sindacali.
Gente come Di Natale (segretario della Fnsi) e colleghi, in genere supergarantiti negli stipendi (il più delle volte li paga mamma Rai), invitano a scendere in piazza per questioni ideologiche o deontologiche. Come nel caso del decreto sulle intercettazioni che, per quanto grave, è una goccia nel mare dei problemi professionali, che i sindacali spesso fingono d’ignorare.
I giornalisti libero professionisti, che in Italia costituiscono la netta maggioranza, sono infatti costretti costantemente a vivere in uno stato di inferiorità assoluta e di servaggio latente nei confronti dell’editore. I bavagli non sono imposti dai decreti legge, ma da un andazzo del mondo lavorativo ormai radicato da Nord a Sud. La mancanza totale di regole, il ruolo degli elefantiaci apparati di categoria (dove presidenti e vicepresidenti siedono a vita nelle loro cadreghe), il giro di soldi pubblici – che tengono in piedi tanti giornali di provincia che non hanno mercato (si pensi, ad esempio, che in Molise, regione con 320mila residenti molti dei quali dimoranti fuori regione e un tasso di lettura tra i più bassi d’Italia, ci sono ben sei quotidiani).Contraddizione Ordine-Inpgi2
La legge che istituisce l’albo dei giornalisti prevede che fra i requisiti per l’iscrizione anche all’albo dei pubblicisti, ci sia la non occasionalità dell’attività. Le migliaia di pubblicisti iscritti all’Ordine, che nella vita fanno altro e scrivono un articolo o due all’anno, dovrebbero quindi essere cancellati dall’albo, cosa che la maggior parte degli ordini regionali si guarda però bene dal fare. Dovrebbero quindi tutti essere iscritti – sic – all’Inpgi2 e invece la maggior parte fa tutt’altro. Il problema, però, si sta gonfiando all’inverosimile con gli “apprendistati d’ufficio”. Insomma, porte aperte a (quasi) tutti, anche perché molti dovranno poi versare l’obolo agli apparati di categoria.
Così molti arrivano all’esame dopo collaborazioni saltuarie. E dopo?
Il problema vero è che, nell’ambiente, tutti conoscono il problema ma nessuno interviene. Perché il cosiddetto “quadrilatero”, cioè Ordine-Fnsi-Inpgi-Casagit, è per lo più in mano ai garantiti. Molte istituzioni che furono create a difesa della libertà della categoria sono quelle che, ahimé, la stanno affondando. E’ ridicolo che si dia la colpa alla “cattiveria” degli editori invece che alla cattiva qualità delle politiche sindacali di categoria. Al posto di cercare incentivi per far aumentare le assunzioni, si alimenta un mercato illimitato di piccoli collaboratori che somiglia sempre più a quello delle vacche.
Carne da previdenza.

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