Di Babbi Natali in giro ce n’è tutto l’anno. Con le barbe grigie e un po’ appiccicose. Perché bianche e pulite come ovatta (ma che lasciano peli in bocca) diventano solo a dicembre. In genere li trovi sotto ai cavalcavia, accampati vicino ai piloni. O sulle panchine del parco pubblico, circondati da piccioni resi sempre più obesi dall’opulenza. Sul gradino di un negozio chiuso da anni. Sul pullman blu del Cotral che prova a rompere l’isolamento dei paesi sulla Tiburtina. Su quelle linee periferiche dai numeri che iniziano con lo zero e dalle vetture colorate nei modi più inammissibili. Sono sempre pieni di buste di plastica i Babbi Natali di tutto l’anno. Quelli ordinari. Anonimi. Che si muovono lentamente. Che mangiano dentro scatole color alluminio. Che indossano gli stessi giacconi d’estate e d’inverno. Che svuotano le riserve alcoliche dei supermercati. Che scrivono, scrivono, scrivono su foglietti di carta. E le parole, talvolta, diventano poesia. Ma a dicembre, solo a dicembre, i vecchi con la barba non sanno più scrivere poesie e si trasformano semplicemente in Babbo Natale. Nemmeno Papà Natale, che sarebbe più normale. Ma Babbo, dandy e un po’ privilegiato. Un logo di garanzia. Babbo Natale diventa allora un portento, un prodigio, un fenomeno soprannaturale. Gli passano tutti gli acciacchi e si muove ritmicamente con un sax in bocca, come se a ottant’anni avesse scoperto Monica Lewinski. Inforca occhialetti intellettuali, alla Gramsci, e sale su scale di corda appese fuori dai balconi come il mago Casanova o lo zingarello nano, sempre lui, quello che ruba dappertutto e riesce ad entrare in finestre di venti centimetri quadrati. Rom o albanese il nanetto, lappone e ariano il nonnetto. Lampeggia, rumoreggia, cazzeggia (talvolta allegramente scoreggia) quel vecchio simpaticone. E’ di plastica lucente, di panno impeccabile, di coccio rigorosamente made in China. Talvolta, ahinoi, persino gonfiabile, ad uso dei distributori di benzina. O, tenetevi forte, radiocomandato. Sorriso alla Durban’s, colori alla Depero, fattezze alla Giuliano Ferrara. Ma agile, spedito come un giaguaro della Patagonia. E’ globalissimo, avendo contaminato con la sua onnipresenza persino quegli ineguagliabili presepi artigiani del nostro Mezzogiorno o le rappresentazioni viventi che fanno recuperare il senso della comunità nella sana provincia italiana. Capanna di legno, mangiatoia con la paglia, Babbo Natale di raso. Ma vuoi mettere il “marchio” natalizio con la barba bianca che i poveri bambini sono costretti a colorare in tutte le salse, il Babby con le tenere suonerie della Bauli, quella sorta di De Michelis che ha spodestato persino l’umanoide Michelin sui Tir spaccasfalto? La tradizionale foto (a pagamento) con il Babbo Natale disoccupato è ormai superata. Ora, per la serie che al peggio non c’è mai fine e “carnevale forever”, ce li propinano in adunate oceaniche con i cappellini a luci intermittenti, in maratone che vengono definite “suggestive” (dalla Danimarca a San Benedetto del Tronto… sic!), in girotondi con obolo di partecipazione, in formazioni musicali raccogli-offerte dai balconi (prendere esempio dal marchese del Grillo), in orribili villaggi di mini-prefabbricati spacciati per case di Babbo Natale. Deposto il costume, affumicata la renna, dicembre addà passà.
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