Giuseppe De Rita “a tutto campo”



Intervista a Giuseppe De Rita: “Da noi vige un sistema antico controllato da una classe dirigente che si annida nei posti di comando”

“Meritocrazia senza spazio nella piramide del potere”
di ALBERTO STATERA

Gerontocrazia, partitocrazia, parentocrazia, clientocrazia, persino – new entry lessicale – mignottocrazia. Tutto ciò che finisce in “zia” si declina in Italia molto più di meritocrazia, ciò che tutti dicono di desiderare. Perché? E come uscirne? Come stappare un sistema leaderistico che, perso nella sua arretratezza culturale, assiste allibito a un nero nato nel 1961 che viene eletto presidente della più grande democrazia del mondo? Giuseppe De Rita, animatore del Censis, sguardo cattolico disinibito e maestro delle analisi icastiche, attribuisce il nostro deficit nientemeno che a Menenio Agrippa: “Ricorda la vecchia metafora di Menenio Agrippa? Diceva che tutto il corpo fa riferimento al cervello, le mani, i piedi, lo stomaco sono sensori stupidi. Se uno si scotta un dito è perché il senso del dolore arriva al cervello, tutti gli impulsi confluiscono nella testa”.
Abbia pazienza, professor De Rita, ma che c’entra con la vecchiezza delle classi dirigenti, la persistenza di élites modeste, che anzi via via sembrano peggiorare? Che c’entra con il mancato ricambio, i giovani imbottigliati in un destino di minorità, magari geni della ricerca a 1000 euro al mese, che vedono nominare ministri della Repubblica calendariste e portaborse, diventare ricche (o potenti) ragazzotte che fanno le veline?
“C’entra eccome. Il problema che stiamo affrontando è quello di una logica gerarchico-piramidale, di un sistema antico controllato da una classe dirigente che si annida nella vetta della piramide e manda tutto il resto all’inferno. E’ l’effetto di uno Stato accentrato fin dal Risorgimento, che ha prodotto una stratificazione sociale e di potere granitica che non si intacca se non si riesce a cambiare la governance del paese”.
Col Risorgimento la prendiamo un po’ da lontano in un paese che si dice tutto proteso alle liberalizzazioni.

“Ma è quello che ci ha portato questa eredità, rispetto ad altri paesi che hanno saputo entrare nella logica cibernetica”.
Cibernetica?
“Sì. Oggi i vari terminali dei computer dialogano tra loro producendo quel policentrismo liberatorio che l’Italia non riesce ad avere nell’arroccamento in vetta alla piramide che rovina il paese. Il dialogo diretto, non mediato dal centro, questo è la cibernetica rispetto a un sistema organicistico”.
Vuol dire che la piramide è così forte da produrre gerontocrazia, clientela, parentela e immobilità?
“Mancando l’articolazione delle responsabilità nella primazia totale dello Stato, le classi dirigenti sono quelle che conquistano la puntina della piramide in mille modi: con i soldi, i media, la corruzione, la parentela, magari il sesso. Mentre le vere classi dirigenti si fanno in periferia con il policentrismo. Il presidente degli Stati Uniti è il frutto del policentrismo degli sceriffi, dei sindaci, dei senatori, dei governatori. In America crescono, arrivano, li vediamo per otto anni poi scompaiono tutti, presidenti, segretari di Stato, tranne naturalmente Henry Kissinger. Noi non ne usciamo se non cambiamo l’architettura del potere, che invece di autentiche classi dirigenti ci regala classi monarchiche, classi di Corte”.
Cortigiani? Lei pensa soprattutto alla politica, ma anche nelle aziende c’è una sorta di perpetuazione di potere, spesso affidato a yesmen inadeguati da una pseudo-borghesia capitalistica che non ha dato grandi prove.
“Credo invece che, alla fine, nelle aziende, come nel sindacato e nelle regioni un po’ di classe dirigente si formi, nonostante tutto. Beneduce quando creò l’Iri durante il fascismo, si fece una sua classe dirigente di qualità, ma credo sia un fatto irripetibile. Però negli ultimi anni ho visto crescere fior di manager. Che ne so? Penso alla Merloni, a Caio, a Guerra, a Milani. E a molti altri. Per cui attenti a dire che le classi dirigenti sono tutte vecchie, inefficienti o mignottizzate. Il circuito però è stretto, è vero. Per stappare la bottiglia bisogna allargarlo di molto quel circuito”.
Come allargare il sentiero se il modello resta quello della politica di relazione e del capitalismo di relazione, a dispetto di ogni invocazione a una società più aperta?
“C’è una questione di struttura di governance. Da quella organicistica di Menenio Agrippa, che produce classe di Corte, militare o mantenuta, bisogna passare a una governance cibernetica, prendendo coscienza del fatto che, come mi ha appena detto Paolo Prodi con immagine felice, è finito lo Stato sovrano, incede ormai lo Stato-sistema, che deve mettere toppe di qua e di là abbandonando la logica monarchico-piramidale”.
Torniamo sempre allo Stato, professor De Rita. Ma qui parliamo dell’intera società imprigionata in un collo di bottiglia.
“Certo che torniamo allo Stato. Lei lo vede che i ministeri sono svuotati? Brunetta dice che sono pieni di fannulloni. Ma il problema non è che ci sono i fannulloni, è invece che il vertice della piramide è lì chiuso nella sua punta e a quelli non gli fa fare niente. Se ne esce soltanto passando dalla monarchia piramidale alla poliarchia. Le moderne élite si formano nel policentrismo. O non si formano affatto”.
Lei sta dicendo che si perpetua la logica del cervellone elettronico di tanti anni fa, immenso nel sotterraneo, e non quella dei moderni terminali che dialogano tra loro in periferia?
“Nel mio annoso mestiere, quando lavoravamo con Pasquale Saraceno al piano Vanoni c’era l’idea del consigliere del principe. Ma sono passati i tempi del principe. Il principe non c’è più. I politici più avveduti devono evitare di fare i capi-macchina, la logica dell’accentramento monarchico non funziona più. Berlusconi e Veltroni? Icone, sono icone”.
Scusi De Rita, lei dice che occorre una rivoluzione culturale nella governance, come oggi si dice, di questo paese. Le sembra che qualcuno ne abbia veramente coscienza e soprattutto voglia?

“Qualcuno dovrà pur accorgersi prima o poi che nella formazione delle classi dirigenti siamo più arretrati di tutti gli altri, forse persino dei francesi, che sono ancora napoleonici. Lei dirà che la Cina è più accentrata di noi. Ma lì sono un miliardo e 200 mila, per cui il policentrismo antimonarchico è fatale. In India, dove c’è una cultura alta invidiabile, la società è molto più articolata che da noi”.
Allora siamo vittime di una maledizione antropologica?
“Beh, è vero che siamo un paese antropologico, fatto di familismo, furbizia e quant’altro, ma non credo sia questo che produce il collo di bottiglia, che blocca il ricambio delle classi dirigenti. Riflettiamo piuttosto sulla cibernetica e Menenio Agrippa”.
(Repubblica.it, 13 novembre 2008)

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