ANNIVERSARI/ La “mia” L’Aquila, l’Abruzzo un anno dopo



“Aprile è il mese più crudele”: è l’apertura del poema di T.S.Eliot “La terra desolata”.
Questo incipit s’è insinuato nella mente di chi scrive da alcuni giorni, da quando una netta sensazione di disagio si è lentamente impadronita della sottoscritta.
Disagio che è aumentato col passare dei giorni e che mi ha messo di fronte ad un’ulteriore conseguenza del terremoto: una parte di me “sa” che si sta avvicinando il 6 aprile, anche senza calendario senza che nessuno glielo ricordi – io in primis. Questa parte di me si comporta come il nostro gatto: alle 7 di mattina si mette davanti alle camere da letto e ci sveglia tutti. E con l’ora legale ha spostato automaticamente il “suo” orario. Come faccia non si sa, ma è un orologio svizzero. Anch’io ho il mio orologio svizzero e anch’io ho il mio mese più crudele. E anch’io ho la mia ora: 3.32.
L’Aquila, la città in cui sono nata e cresciuta, ma non diventata adulta, ha smesso di vivere allora – per me. Quella che esiste ora è qualcos’altro. Io sono qualcos’altro.
Si leggono spesso testimonianze di chi ha vissuto il sisma in prima persona, di chi sta ancora vivendolo. Poco si dice di coloro che hanno perso L’Aquila due volte: quando sono andati via, percorrendo altre strade – lavorative e di vita – e il 6 aprile 2009.
Ho spesso immaginato noi terremotati come i circoli d’acqua che si formano al lancio di un sasso nello stagno. Il sasso è “ju tarramuto”. Il primo cerchio sono le persone che non ce l’hanno fatta, quei 309 che sono affogati insieme al sasso. Nel secondo cerchio ci sono quelli che sono sopravvissuti. Nel terzo ci siamo noi, gli outsider, quelli che il terremoto l’hanno vissuto da fuori.
Quelli che quasi si sentono in colpa di non essere stati lì, che possono esprimere il proprio dolore, la propria perdita sempre in seconda battuta, quasi per rispetto e pudore nei confronti del “secondo cerchio”.
Siccome faccio parte del terzo cerchio, so che le fasi del dolore, della perdita e dello sgomento non ci hanno risparmiato, so che una cosa del genere ti cambia, anche se la terra sotto i tuoi piedi ha tremato di meno, anche se la casa in cui abiti è intatta e la vita, il giorno dopo, continua come se nulla fosse.
Non ci si può dedicare al dolore in maniera totale perché quello che è successo “lì” non ha intaccato il ritmo lavorativo e quotidiano del tuo “qui”. Certo, tutt’intorno c’è partecipazione per la tragedia, ma le scuole sono aperte, i figli continuano ad avere le loro attività, i tuoi colleghi hanno bisogno di te. E allora il dolore, lo sgomento, la rabbia, la frustrazione bisogna centellinarli e condividerli con altri sentimenti più normali e meno estremi.
Non so se questo sia un bene. Noi “fuori” non abbiamo avuto la possibilità di disperarci, di piangere per giorni, di vivere fino in fondo il dolore, di arrivare alla fine del tunnel. Noi siamo ancora “dentro” il tunnel e ci metteremo molto tempo prima di vedere la luce.
Anche il voler aiutare in qualche modo, dalla nostra posizione privilegiata (?), è fonte di frustrazione. Poter far poco e niente e vedere, magari con occhio più obbiettivo ed oggettivo, una città che si sta ripiegando su se stessa.
Forse la chiave di tutto è l’accettazione: accettazione della propria emarginazione, accettazione della tragedia umana e sociale, accettazione di aver perso anche quella minima speranza di poter un giorno far parte nuovamente della città così com’era.(Maria Piera D’Alessandro – 5 febbraio 2010)

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