I molisani, il 4 marzo, hanno espresso tutta la loro (legittima) insoddisfazione attraverso un voto nazionale di cui, tutto sommato, interessava poco. Perché si tratta di un voto considerato lontano. E soprattutto sempre scarsamente ricambiato: da Roma le attenzioni economiche e mediatiche di solito prendono altre strade rispetto a quelle – tra l’altro assai “sgarrupate” – del Molise. Così tra i molisani e i Palazzi romani non è mai sbocciato l’idillio: persino chi, partendo da Isernia o da Campobasso (e dintorni), ha fatto accesso nei Palazzi del potere, non s’è mai dimenticato di recintare e difendere il piccolo feudo provinciale di partenza. Meglio poco ma buono. Ambizioni nazionali pari a zero.
Il voto amministrativo, viceversa, tocca le corde più intime dei molisani. Se è finita la manna dei posti di lavoro distribuiti dalla politica, in fondo la poltroncina da consigliere è un signor posto di lavoro. E se lo chiede “fratecugine” come si fa a dirgli di no? Poi è sempre utile avere un rapporto diretto con chi può dare una mano quando c’è il progetto da approvare. Ecco perché il Molise – nel bene e nel male – rimane lo scrigno dove impera l’apoteosi della conservazione.
Chi fantasticava i venti di cambiamento s’è ritrovato, in fondo, le stesse quattro pietre. Grezze, anche un po’ rozze, ma un quasi eterno punto di riferimento. Il Molise, volenti o nolenti, è l’ultimo baluardo di un’autentica ideologia noglobal. Ohio? No, Chiapas.
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