Il monito di Fukushima



Gli effetti del terremoto-tsunami che ha colpito il Giappone nel pomeriggio di venerdì 11 marzo, oggi, a più di due settimane di distanza, hanno un nome soprattutto: radioattività.
La centrale nucleare di Fukushima emette, attraverso il liquido fuoriuscito da un suo motore, una radioattività che i tecnici hanno calcolato essere di 100 mila volte superiore alla norma. Radiazioni così forti sono in grado di cancellare in breve tempo la vita. In un contesto del genere nessun essere umano che non sia un kamikaze è in grado di intervenire. Infatti tra sabato e domenica tutti i tecnici sono stati ritirati in fretta e furia da Fukushima. Rischiano un’aspettativa di vita di un mese. E se il liquido radioattivo, oggi forse ancora in grande parte contenuto all’interno di un ambiente chiuso, dovesse uscire all’esterno, il Giappone precipiterebbe in una emergenza ancora peggiore di quella che ha fin qui conosciuto.
Se il Giappone fosse un Paese senza centrali nucleari ieri avrebbe avuto una bolletta energetica sicuramente più pesante da pagare, per la dipendenza dall’estero, ma oggi la sua ricostruzione potrebbe procedere in maniera più lineare, meno traumatica. Il rischio radioattività è diventato il vero incubo di tutto il Paese e anche nei Paesi vicini c’è allarme.
In Italia non sono pochi a sostenere ancora, nonostante tutto, la scelta delle centrali nucleari per la produzione di energia, una scelta tecnica, affermano, una scelta economica, una scelta che poggia sulla sicurezza delle centrali di nuova generazione. Lo abbiamo sentito anche nei giorni scorsi in tv, lo abbiamo letto sui giornali. Siamo in un Paese a rischio sismico da sempre, da prima di Ercolano e Pompei; siamo indietro anni luce ai giapponesi quanto a sistemi di sicurezza antisismica. E dunque, quale faccia tosta ci vuole per sostenere ancora certe posizioni?
Si faccia come la Germania che nelle energie alternative ha creduto e che oggi, senza piani nucleari per il prossimo futuro, guida l’Europa fuori dal tunnel della più pesante crisi economica dalla fine della seconda guerra mondiale.

(Antonio Felice – [email protected])

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