La tirannia della banalità



La tirannia della banalità

Cos’è la banalità? La banalità è la superficie che ha in astio la profondità. In questo senso essa non è insignificanza, sciocchezza, piuttosto è amore per la superficialità, per la superfluità, l’ovvietà dei sensi e dei significati che si replicano all’infinito. E’ il senso comune che ama se stesso, è rinuncia alla ricerca, perchè crede sempre di sapere. La banalità è la sacralità delle rassicuranti abitudini che aborrisce ogni forma di inquietudine dell’anima.
La banalità non è mai angosciata, non si deprime ed è alla costante ricerca del divertimento. E’ incapace di concepire il non senso, perché per essa non v’è problema che non abbia una soluzione ma, soprattutto, tiene in odio la fatica del pensare. La banalità vuole la pancia piena e si fa sempre gli affari suoi. E’ indifferente e ossessivamente pedante, adora la tribù e la tradizione etnica. La banalità ama farsi rappresentare dalla chiacchiera. La chiacchiera è il suo abito e la sua espressione. Se, dunque, la chiacchiera diviene la forma dominante della comunicazione, allora la banalità può celebrare i suoi trionfi. La banalità nella suo stato di diffusione globale e senza confini, prende le più varie forme di comportamento sociale.
Banale è l’impiegato che è capace di invecchiare dietro una scrivania in una stanza disadorna, ossequiando la malevole stoltezza del suo capo. Banale è l’insegnante che asfissia generazioni di studenti riducendo l’arte e la scienza, la filosofia e la storia ad obbligo burocratico e ripetitivo pur di esigere un vitalizio. Banale l’editore che promuove scrittori di storielle per deficienti, ma utili per fare soldi. Banale è il giornalista che scrive per non dispiacere gli editori del suo giornale. Banale è il magistrato che invece di applicare le leggi vuole fare giustizia. Banale il medico indotto dall’abitudine a considerare il paziente un ammasso di parti anatomiche. Banale il banchiere che vive solo per il danaro. Banale il politico che non riesce a immaginare nemmeno per un istante la sua esistenza lontana dal potere. Banale la religione ridotta a mero di strumento di compensazione psicologica per tutte le meschinità cui quotidianamente ci si dedica.
Ci si potrebbe chiedere se la banalità sia una costante della storia dei comportamenti umani e se nel nostro mondo sia la stessa di quella del passato o di diversa natura. Inclino a credere che, da sempre, la banalità abbia tendenzialmente governato i comportamenti umani, ma con una differenza importante rispetto al nostro tempo: nel passato essa non ha mai assunto, come nelle nostre democrazie, una forma così diffusa.
Il passato è stato meno banale del presente, per la semplice ragione, che gli uomini incontravano maggiori difficoltà nel soddisfare i loro bisogni. Essi erano di gran lunga più esposti ai capricci degli eventi naturali che, nella loro imponenza e onnipotenza, potevano minacciare le loro esistenze. Più un evento è inspiegabile, più esso appare straordinario.
Agli uomini del passato il mondo appariva di una quotidiana straordinarietà che in qualche modo ne sollecitava l’immaginazione. Li spingeva a ricercare strategie per migliorare la loro condizione, rendendo più difficile assecondare l’umana inclinazione alla banalità. Il passato ha conosciuto il dispotismo politico, ma non quello della banalità.
Al contrario, in questo mio grasso e moderno presente, più gli eventi sono spiegabili, o appaiono tali, più sembrano ordinari. E se la democrazia ha rappresentato la fine del dispotismo politico, dall’altro ha alimentato quello della banalità. Detesto la banalità, ma mi consolo almeno con il fatto che essa getta nuova luce su un’antica domanda: cos’è la natura umana? E sì, perché la natura umana, almeno per un suo carattere, appare per lo più tendere irresistibilmente verso la banalità. Così mi sento di annoverare questo come uno dei risultati più apprezzabili della democrazia: se essa non vi fosse stata io non avrei mai potuto sperare di comprendere qualcosa in più del mistero della natura umana. Ecco, semplicemente riassunto in tre righe, quello che ho compreso:
la democrazia è l’espressione della volontà maggioritaria. Bene se tale volontà esalta la vita banale, sino a renderla tirannica, allora un tratto prevalente della natura umana è di certo quello che inclina irresistibilmente verso la banalità.
Mi meraviglio davvero che prima d’ora nessuno avesse pensato che la soluzione del mistero fosse così a portata di mano! Od ogni modo, non dovete credere che con questo io voglia gettare discredito sulla democrazia: non ci penso affatto!
Anzi, sono tra quelli che ritengono che alla democrazia non vi sia alternativa. E però mi chiedo se la conduzione della vita banale, cui è dedita la stragrande maggioranza delle persone nelle grasse democrazie moderne, non sia responsabile della trasformazione progressiva della democrazia in una nuova, inedita e autoritaria forma cui nessuno pare accorgersi: quello per l’appunto della tirannia della banalità.
La democrazia è stata una creatura nata da principi forti e nobili che si radicavano nella mancanza: mancanza di mezzi indispensabili per una vita degna di essere vissuta, di giustizia, di libertà, speranza. E’ nata dalla mente di individui speciali per coraggio e intelligenza. Ma al suo divenire adulta, la mancanza s’è colmata, la straordinarietà che l’aveva annunciata s’è eclissata. Il cittadino s’è trasformato in consumatore e u-tente della pingue ordinarietà, che non necessita di coraggiosa intelligenza, quanto di mediocre e burocratica amministrazione.
La democrazia per potersi affermare hanno avuto bisogno del cittadino. Ma la sua versione moderna può farne a meno, perché ciò che le occorre è il cosiddetto consumatore. E qui sì, che nasce una bella questione: ma costui, questo consumatore, è ancora cittadino, o è diventato un’altra cosa? E se fosse diventato altro, cosa renderebbe il cittadino diverso dal consumatore? Provo a rispondere a questo modo: Il cittadino è l’uomo il cui tratto distintivo è la memoria e l’anima; ciò che lo interessa prioritariamente nella vita di relazione è la titolarità irrinunciabile di fondamentali diritti di libertà e l’inviolabilità della persona. Il consumatore, invece, è l’uomo che consuma, la cui priorità essenziale consiste nella titolarità, che giudica non negoziabile, del principio di scelta degli oggetti verso cui il suo desiderio di possesso si indirizza.
Qualche tempo fa, la mia giovane figlia studiosa di economia negli Stati Uniti, mi raccontava della discussione che aveva avuto con una sua amica cinese ingegnere informatico.
Mi diceva di come alla sua amica cinese risultasse assolutamente incomprensibile che si potesse, e si dovesse, criticare il governo comunista della Cina. Non che la sua amica fosse comunista o altro, solo che alla ragazza, appartenente alla classe media cinese, appariva inconcepibile criticare un governo, sotto il quale ella poteva godere di un reddito sostenuto e di una capacità di consumo liberalizzato.
Che poi il regime politico fosse a partito unico, reprimesse brutalmente il dissenso e la stampa fosse sotto censura, erano cosa che o ignorava, o riteneva secondario. Cito questo episodio perché esso può aiutare a capire cosa sta accadendo anche nelle nostre democrazie. La giovane cinese non è cittadina di una comunità ma consumatrice, cosi come lo sono tanti altri, giovani e meno giovani, nelle nostre democrazie.
Nella cosiddetta modernità l’importante è che venga garantito la possibilità di consumo e lo status di consumatore, tutto il resto, interrogarsi sulla natura dei diritti e doveri socialmente necessari, come pure la loro dimensione etica diventano faccende irrilevanti. La Cina è l’esempio mondiale di come una pubblica opinione che tende all’opulenza e al consumo, possa mostrare un così grande disinteresse per questioni come la mancanza di libertà di stampa, di opinione e di diritti delle minoranze, se queste non compromettono la sua capacità di consumo. E in taluni casi non è solo di questo che si tratta. Può capitare che quel disinteresse possa trasformarsi addirittura in insofferenza e ostilità nella pubblica opinione, nei confronti di chi muove critiche a sistemi politici autoritari e illiberali.
L’esempio cinese può aiutare a capire quanta simmetria si possa stabilire con quello che sta accadendo nelle nostre democrazie. In queste, infatti, il pluralismo politico e libere elezioni non sono tali da impedire che singoli individui e interi gruppi restino a vita, o quasi, nelle assemblee elettive o in organismi di amministrazione e controllo della vita pubblica.
Il consumo è divenuto su scala planetaria ciò che dà significato alle vite di centinaia di milioni di esseri umani. Di conseguenza, il consumo è tutto e non c’è aspetto della vita privata e pubblica che non gli venga subordinato.
La vita motivata dal consumo e finalizzata al consumo semplifica il mondo interiore della persona al punto di renderne banali i comportamenti. Nello stato di banalità si attenua la percezione della responsabilità e scompare il dovere di dovervi corrispondere.
La tirannia della banalità non è un concetto immediatamente politico. Essa non esprime l’esercizio del potere politico, nè è concepibile come il prodotto dell’intenzione di qualcuno. Semplicemente è uno stato generalizzato, un ambiente, una specie di ecosistema mentale dentro il quale si trovano tutti, davvero tutti: governanti e governati, vecchi e giovani, uomini e donne, netturbini e scienziati, tutti e indipendentemente dalle differenza di reddito, cultura e istruzione.
Accanto alla biosfera dalla quale respiriamo ossigeno, abbiamo creato una specie di psico-sfera della banalità, che alimenta pensieri e aspettative. La banalità è il tiranno impersonale delle nostre democrazie. Non ha visibilità, né ha un partito perché esso è il partito della maggior parte delle persone. Nel mondo della comunicazione ultrarapida di internet, di giornali e televisioni la banalità domina incontrastata.
Denaro, successo, carriera sono gli idoli offerti e inseguiti da una natura umana che mette in scena su scala planetaria il suo delirio di vanità, al quale sembra che nessuno riesca a sottrarsi. Il danaro soprattutto è divenuto la misura di ciò che gli individui dovrebbero essere.
L’umanità si misura con la quantità di danaro disponibile. Il danaro do-vrebbe essere solo un semplice mezzo con il quali gli uomini facilitano la loro vita. E invece quello è diventato la misura della loro sostanza umana.
La qualità di una persona, la sua sensibilità d’animo, la sua intelligenza, i suoi sentimenti e moralità, sono misurati in ragione della quantità più o meno grande di danaro disponibile. Gentilezza, raffinatezza dei modi, senso della discrezione, riconoscenza sono divenuti segni di debolezza da cui tenersi alla larga.
Nelle grasse democrazie, i parlamenti sono divenuti degli inutili orpelli. Nessuno pare accorgersene. Al contrario, molti blaterano dell’esistenza della diversità di punti vista, del pluralismo delle idee e dei programmi di governo. E invece quelle idee non si diversificano in nulla e quei programmi sono pattumiera da rovesciare nelle discariche delle campagne elettorali.
I parlamenti e la politica servono ormai solo per gli affari delle caste politiche che si assomigliano tutte in maniera impressionante su scala mondiale. In realtà il governo delle grasse democrazie è nelle mani di alcune nuove caste: quella dei giocatori di un qualche sport, dei presentatori televisivi e dei banchieri. Centri finanziari e banche decidono su scala planetaria quale deve essere la capacità e libertà di consumo di ciascuno. Divi dello sport calamitano l’attenzione e gli entusiasmi delle folle e i presentatori di programmi televisivi decidono quali opinioni valgono e quali no. Pochi uomini d’affari regolano il ritmo della vita mondiale, mentre intorno alle loro tavole le caste politiche si dividono i resti dei banchetti della finanza e i consumatori sono intenti a come meglio continuare a stare nel grasso di quanto resta. E tutto questo viene, con gran enfasi, chiamata democrazia.

(Donato De Renzis)

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