L’emigrazione italiana in salsa federalista



A Roma, presso il complesso del Vittoriano di piazza Venezia, è in corso una mostra sulla storia dell’emigrazione italiana, propedeutica alla formazione del “Museo nazionale emigrazione italiana”. L’iniziativa, attraverso documentazione d’epoca, illustra le diverse fasi dell’emigrazione, dalle origini a quella di massa (1876-1915), dal periodo fascista al secondo dopoguerra, fino ai giorni nostri.
L’esposizione, che gode di un ricco comitato scientifico e dell’alto patronato del Presidente della Repubblica, da una parte ha carattere “permanente”, in quanto dovrebbe durare – nell’attuale prestigiosa collocazione – almeno fino al 2011, inserita nelle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Nel contempo vive una logica di “work in progress”, cioè mira ad acquisire “in corso d’opera” ulteriori materiali, così da allestire, in altra sede, un museo stabile dell’emigrazione italiana.
Di questa attuale “temporaneità”, ad onor del vero, ne siamo ben lieti. Perché – visitando in modo approfondito il museo – abbiamo rilevato un’anomalia: la predominante attenzione della raccolta verso l’emigrazione dai territori del Nord Italia. Di contro il Mezzogiorno è scarsamente rappresentato, nonostante abbia pagato il prezzo più alto alla piaga delle partenze (circa 13 milioni di persone, al lordo dei rientri).
Questo squilibrio si spiega, forse, nel fatto che gli organismi coinvolti e i materiali esposti provengono per lo più da strutture del Settentrione: ad esempio, molti documenti sono della Fondazione Cresci di Lucca, del Centro studi sull’emigrazione di Genova e del Centro Altreitalie di Torino, che tramite Maria Rosaria Ostuni (responsabile scientifico della Fondazione), Fabio Capocaccia (presidente del Centro studi) e Maddalena Tirabassi (direttore scientifico di Altreitalie) fanno parte anche del comitato scientifico. Peso rilevante anche per la Fondazione Sella di Biella, gli archivi di Stato di Cremona, Genova, Mantova, Parma e Treviso, le dichiarazioni prefettizie di Vicenza e Udine e un’altra trentina di archivi e centri studi da Firenze in su.
Anche le molte riviste esposte riguardano popolazioni del Nord: trentini, friulani, veneti (in particolare bellunesi), con una sola presenza meridionale, siciliana per l’esattezza. La biblioteca, al di là delle numerose opere che trattano l’emigrazione italiana nell’insieme, offre soprattutto approfondimenti sulle partenze dalle regioni settentrionali.
I materiali di provenienza ministeriale o romana non fanno mutare gli equilibri.
Le bandiere del Sud sono affidate a limitate realtà: il museo del minatore di Casarano, l’accademia di storia dell’arte sanitaria a Sant’Arcangelo di Lucania, l’archivio di Stato di Reggio Calabria, la raccolta “Le Stanze della Luna” di Vibo Valentia, il museo eolano di Messina.
Alcune assenze sono davvero ingiustificate. Il Molise, ad esempio, regione caratterizzata dalla più rilevante emigrazione in rapporto al numero di abitanti (oltre 650mila partenze nel periodo considerato rispetto agli attuali 320mila residenti in regione, con stime che parlano di quasi 900mila oriundi nel mondo), è rappresentato in mostra da un solo libro edito da Donzelli, tra l’altro generico sulla storia regionale e alquanto datato. Eppure la più piccola regione del Mezzogiorno vanta diverse collane librarie specifiche sul tema migratorio: si pensi soltanto ai 23 titoli dell’editore Iannone di Isernia della collana “Quaderni sulle migrazioni” diretta da Norberto Lombardi, compreso il libro “La tratta dei fanciulli” di Nicola Paolino, che ha rappresentato lo spunto di una recente puntata del programma “Ulisse”. O i romanzi dell’italo-canadese Nino Ricci, considerato uno dei maggiori scrittori italo-americani contemporanei.
Analoga la situazione dell’Abruzzo (con circa 2 milioni di oriundi) e della Basilicata, terre dissanguate dai flussi migratori oltreoceano e praticamente assenti nella mostra.
Qualche traccia della Calabria c’è con i documenti sulla navigazione relativi a Reggio Calabria e Vibo Valentia. La Campania è presente con le cartoline storiche Sturani di Roma. Ma globalmente poca roba. Gocce nell’oceano.
Se per la tragedia di Marcinelle si può leggere la prima pagina del quotidiano L’Unità del 9 settembre 1956, è dimenticato il disastro della miniera americana di Monongah del 6 dicembre 1907, in cui perirono un migliaio di persone, circa duecento gli italiani, quasi tutti meridionali.
Non convince, allora, la presentazione dell’iniziativa, quando il testo dei curatori sottolinea che il museo “vuole presentare, con un’ottica unitaria, la varietà delle realtà migratorie regionali e locali”. Indubbiamente i promotori, tra l’altro ben supportati dalle risorse pubbliche, hanno ancora molto da lavorare.

(Pierino Vago)

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