Un’Authority semi-indipendente



Un po’ di anni fa, un ignoto bontempone tirò un innocente scherzetto ad un’authority. Fece recapitare una serie di denunce “incrociate” tra editori. Cioè uno risultava accusare l’altro di qualche nefandezza, l’altro gettava fango su un altro ancora e così via. Una sorta di catena di Sant’Antonio. I solerti uffici, senza una minima indagine preventiva, convocarono un drappello di persone tra presunti mandanti e supposte vittime, ruoli spesso sovrapposti. Fu una giornata di caos, con giovani funzionari in cravatta impegnati a fotocopiare documenti d’identità, a raccogliere smentite, a riempire di carta inutile i faldoni, a proferire scuse di fronte alle reazioni non certo edulcorate di chi aveva perso mezza giornata con un’involontaria pagina di teatro. Da protagonisti. Ne emerse – almeno per gli attori della vicenda – una certa approssimazione nelle funzioni e nell’organizzazione che regnava in quel luogo.
Quando nacquero, sul modello anglosassone (ma noi purtroppo non siamo l’Inghilterra), si malignò che servissero in primo luogo a collocare persone. Non solo ai vertici, ma anche in organici gonfiati senza concorso. Altro aspetto che colpì: la maestosità di alcune sedi, in linea con il malcostume della burocrazia romana. Ma sui ruoli si sono concentrate le più aspre critiche: davvero c’era bisogno di altri organismi pubblici, con funzioni spesso accavallate o comunque attigue a quelle ministeriali?
Il punto dolente, però, ha sempre riguardato l’indipendenza. Virtù di cui gli inglesi sono maestri. Ma nell’Italia dei patti di sangue, delle eterne filiere, delle corporazioni, delle lobbies e delle ramificazioni, davvero ci si può fidare?
Il principio ispiratore degli enti di controllo cosiddetti “esterni” – come appunto il Garante prima e le Authorities poi – è stato proprio la totale indipendenza da interessi politici ed economici. Almeno a parole. In realtà, nel nostro Belpaese, le “estensioni” della politica non conoscono limiti. Così i componenti delle cosiddette “Autorità di garanzia” hanno finito per riflettere, il più delle volte, il peso dei partiti in Parlamento. Cioè l’eterno manuale Cencelli. In alcuni casi vengono addirittura scelti direttamente dal governo (di centrodestra e di centrosinistra), alla faccia dell’indipendenza.
L’Agcom non fa eccezione: i suoi otto commissari sono eletti per metà dalla Camera e per metà dal Senato. Addirittura vengono scelti gli stessi parlamentari. C’è di più; il presidente è proposto direttamente dal presidente del Consiglio. E c’è anche il placet del presidente della Repubblica, tanto per avallare il maccanismo. Nessuna anomalia: tutto ciò è stabilito da quel gioiello della legge Maccanico del 1997, che ha appunto istituito questi organismi.
Con la pubblicazione, sul quotidiano “Il Fatto”, del resoconto delle intercettazioni telefoniche di Silvio Berlusconi, Augusto Minzolini e soprattutto di uno dei commissari, Giancarlo Innocenzi (talmente indipendente da essere un ex uomo Fininvest), è in discussione proprio l’imparzialità di questi organismi. Cioè la mancanza di indipendenza. Le telefonate, è noto, riguardano la Rai. Cioè un altro organismo cui dovrebbe essere assicurata l’autonomia e che invece ha sempre incarnato un perverso esempio di pesanti intromissioni partitiche.
L’Autorità delle comunicazioni, nello specifico, dovrebbe soprattutto controllare il mercato delle comunicazioni non solo per ciò che riguarda la concorrenza (sic), ad esempio il controllo di posizioni dominanti, e il pluralismo (ari-sic), ma anche per garantire un’informazione imparziale. Emilio Fede (ma anche lo stesso Santoro), si sa, sono dei noblemen inglesi.

(Pierino Vago)

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