La chiusura dell’Alcoa in Italia dopo il picco mediatico generato dal discorso del Papa (ora abbiamo la ragionevole certezza che la Classe operaia andrà in Paradiso), è evapoarata dalle pagine dei giornali, come tanti altri fenomeni, di cui ci si indigna per poi accantonarli come fanno i bambini con i giocattoli.
Il primo caso del genere di cui ho memoria è l’Innocenti Leyland negli anni ‘70 che decise di chiudere un suo stabilimento in Lombardia. Dai ricordi di adolescente emergono esattamente le stesse diatribe, le stesse accuse e gli stessi argomenti di oggi. Le multinazionali, gli operai, il futuro rubato, le speranze tradite, lo sfruttamento e l’abbandono. Della Leyland non sopravvive nemmeno il ricordo. Se avesse mantenuto gli stabilimenti in Italia avrebbe agonizzato qualche mese in meno. E’ probabile che l’Alcoa fra qualche anno si chiamerà in modo diverso o sarà inglobata da qualche altra entità, magari cinese.
Senza la pretesa di essere particolarmente acuto o originale, secondo me la questione Alcoa, come anche la Fiat (e lo stabilimento di Termoli), la Ittierre, e tutte quelle che l’hanno preceduta e la seguiranno e’ un esempio di un problema di gran lunga più grave. In Italia sta per sparire qualsiasi attività economica non parassitaria, che cioe’ non dipenda dalle commesse statali, da una posizione di monopolio o da sussidi pubblici (di cui tra l’altro beneficia anche l’Alcoa). La produttività del lavoro (massacrata dal deterioramento delle infrastrutture, dalla corruzione e dagli scarsi investimenti) è in picchiata. Il peso delle tasse, il disastro della pubblica amministrazione, il sistema legale-giudiziario di stampo sub-sahariano, la criminalità, rendono un calvario persino mandare avanti una piccola attività (quelle del popolo delle partite Iva tanto per capirci).
Insomma i problemi che denunciamo da decenni (vi risparmio l’elenco completo) stanno strangolando quel poco di economia sana che e’ rimasta, specie in una fase in cui anche i paesi più efficienti dell’Italia hanno enormi difficoltà a rimanere a galla. Nessuna impresa straniera prova ad investire in Italia da tempo immemorabile (a parte quelle che come Albertis o Telefonica vogliono accaparrarsi qualche succosa rendita a spese dei contribuenti), tanto meno nel settore manifatturiero (e men che mai nel Mezzogiorno profondo). Quindi non deve sorprendere se quelle poche rimaste stanno per andarsene, una volta spremuti fino all’ultimo i macchinari, gli impiegati ed i sussidi statali (Fiat docet). Del resto anche le imprese italiane chiudono e quando pure gli operai si appollaiano sulle gru, riuscendo a scucire qualche fondo alle casse pubbliche (soprattutto sotto elezioni), la realtà non cambia. Finiti i soldi, spentesi le telecamere, se non si è in grado di stare a galla, presto o tardi si affoga.
Il sistema industriale italiano ha l’acqua alle narici. La produzione industriale ha già subito un tracollo nel 2009 (www.repubblica.it/economia/2010/02/10/news/produzione_industriale_2009-2243343/ come non era mai stato registrato.
Quindi il punto non e’ tirare Alcoa per i capelli o stracciarsi le vesti, ma rendere il “sistema paese” (per pigrizia ricorro al gergo da Sole24Ore) meno schizofrenico, più onesto e più efficiente. Questa fu la molla che spinse un grosso pezzo dell’elettorato a votare Berlusconi. Chissa’ se sono soddisfatti dei risultati, o se si sentono sedotti e abbindolati.
(Fabio Scacciavillani – 12 febbraio 2010)
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