Finanziamenti all’editoria: abusi no, democrazia sì
Depotenziare il finanziamento pubblico agli organi d’informazione è una battaglia della prima ora del Movimento Cinquestelle. Un obiettivo ereditato direttamente dagli spettacoli teatrali di Beppe Grillo, ad esempio in “Reset tour” del 2007, anno in cui il finanziamento pubblico all’editoria ha raggiunto il tetto massimo degli ultimi anni con 180 milioni di euro.
Il comico genovese sui palcoscenici di mezza Italia denunciava, con evidenti ragioni, lo sperpero di quel fiume di denaro che finiva, almeno in parte, ad iniziative editoriali di scarsissima presa e di pochissimo peso. Inclusi quotidiani di partiti agonizzanti o rivistine pseudoreligiose.
Certo, la questione del finanziamento agli organi d’informazione non può essere subordinata alla qualità dei contenuti, parametro di giudizio difficilmente oggettivo: come si fa, infatti, a certificare una stampa realmente pluralista e libera rispetto ad una stampa asservita e telecomandata? Il nodo del problema è, invece, l’assoluta legittimità di interventi di sostegno in quanto l’informazione rientra tra i diritti costituzionali dei cittadini che lo Stato deve garantire.
Tuttavia, va evidenzato con forza, a quella florida mammella pubblica si sono abbeverati per anni anche giornali di quart’ordine, spesso mantenuti in vita unicamente da quelle salutari boccate d’ossigeno. Con una tara rappresentata da abbondanti utili economici. Attività, pertanto, tenute in piedi non per un generico diritto all’informazione, seppur a favore di manciate di lettori, ma per la soddisfazione economica di scaltri imprenditori.
Ricordiamo che per finanziamento illecito all’editoria si sono celebrati numerosi processi, con il coinvolgimento di noti affaristi del settore, specie nel Mezzogiorno.
Se il quadro è questo, si dirà, meglio togliere del tutto i contributi economici all’editoria, casomai compreso il canone alla Rai, e lasciare che sia il mercato a premiare i più bravi e, quindi, i più apprezzati dal pubblico. Ad esempio “Il Fatto quotidiano” si vanta, sin dalla nascita, di vivere e di crescere senza interventi pubblici. Bravi, certamente. Ma – questo il punto – può davvero il solo mercato ad ergersi da regolatore di una materia così delicata e complessa come l’informazione, ossatura di tutte le democrazie?
Per quanto la pioggia indiscriminata di una montagna di soldi ad editori puri e impuri abbia rappresentato per anni uno scandalo caratterizzato da troppi abusi e pochi controlli, ciò non giustifica gli attuali tagli pesanti e indifferenziati all’editoria. Chiedere l’estraneità dello Stato da alcuni settori vitali per la convivenza civile equivale, infatti, a disconoscere lo Stato stesso, frutto anche dell’evoluzione relazionale e culturale umana. Non a caso il sostegno statale è presente per libri, cinema, teatri, opere liriche, musei, mostre, monumenti.
Ovviamente sostenere non significa sostituirsi al libero mercato. Lo Stato-Pantalone non può concedere la manna a tutti. Alcune malversazioni del passato vanno di sicuro corrette in tutti questi settori, a cominciare dalle distorsioni presenti per il cinema o per la musica: ma il pluralismo, specie in territori estranei ai grandi flussi comunicativi, va assolutamente garantito. Non è quindi una questione di salvaguardia di posti di lavoro, foglia di fico presente anche per cause meno nobili (si pensi alle aziende che inquinano), ma di convivenza democratica.
Non va dimenticato, inoltre, che, causa la crisi, da anni il comparto dell’editoria è preda di radicali concentrazioni: la metà delle copie sono diffuse da soli due grandi gruppi editoriali (Rcs e Gedi), i distributori sono ridotti all’osso, quelli nazionali sono non più di tre, quelli locali a circa uno per regione. Lasciare tutto al mercato significa non solo favorire questi fenomeni di oligopolio, ma anche rischiare di cancellare del tutto l’informazione cartacea o televisiva in alcuni territori, Molise compreso.
L’unica parcellizzazione è nel settore delle testate on-line, sebbene queste – nel 98 per cento dei casi – dipendano solo dalla pubblicità e fatturino meno di 21mila euro all’anno. Una fragilità che spesso si paga rinunciando all’autonomia.
In conclusione, ribadendo l’importanza dell’intervento statale soprattutto in questo comparto (sarebbe certamente più proficuo ed etico tagliare i sussidi pubblici non ai giornali ma alle fonti energetiche fossili dannose per l’ambiente, dal carbone al petrolio), servono regole chiare e comuni per evitare il ripetersi degli abusi. E se tutto il mondo dell’informazione da tempo soffre di questa crisi spaventosa, quello molisano vede il problema ancora più amplificato.
Crediamo, ad esempio, che l’sos lanciato proprio in questi giorni da TeleMolise, esempio di imprenditoria di successo nella nostra regione, vada raccolto da chi di dovere: ogni riduzione di spazio per un organo d’informazione equivale alla scomparsa di un pezzo di democrazia.
(G.C.)
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