Pensieri dal Molise: sull’Ucraina

Sul declinare di febbraio, il più breve d’ogni mese, tutto esplode di bellezza, e marzo sembra spingersi già con i suoi capricci dentro la nuova stagione. Dalla corona dei monti scivolano fragranze godevoli di tepori che s’allargano e si disperdono sui pianori, lungo il fiume e nel lago, in grandi carezze colorate. Strepiti di mandorli in fiore. S’avverte la brama d’una primavera, ansiosa di ricominciare. 

Ma l’indomani, d’improvviso, i dispetti. Tornano cieli grigi, invernali; fiocca a Campobasso e qui, ceffoni in faccia di bora siberiana. Acquazzoni.  E di nuovo nevicate il 1° marzo pure a Guardialfiera e percezione di brividi convulsi lungo la schiena. Tremori. Non tanto di natura meteorologica, ma di freddo psicologico discendente dai Monti Urali e dalla follia e dalla scelleratezza agghiacciante dell’uomo, imbestialito a sbranare, per dispetto, un altro uomo, attraverso la ferocia d’una guerra apocalittica. E siamo a marzo, in quel mese che prende il nome da Marte – dio romano della guerra – e, durante il quale, nell’antichità, iniziarono le stoltezze e le barbarie delle grandi lotte armate e fratricide.

Anche a Chernobyl c’è guerra che strozza la libertà! C’è fuoco armato pure in quei luoghi sui quali 36 anni or sono si scatenò la più rischiosa tragedia nucleare d’ogni tempo, un disastro classificato al massimo della scala catastrofica.  Ora, come in quella sventura del 1986, il cuore molisano pulsa di bene. Accolse allora e adottò centinaia di bimbi intossicati da sostanze radioattive. La nostra gente buona torna ancora desiderosa d’abbracciare, in questa quaresima, un po’ di quella croce che grava sulle spalle di quei “poveri cristi” ucraini.  Un nuovo esodo biblico svuota l’Ucraina di vite umane. Una fuga straziante di bambini, al cui pianto persino Giuseppe Stalin, l’uomo bolscevico – ritenuto durante la mia adolescenza, il più brutale di tutta la Russia imperiale e sovietica – perfino quel “Baffone” avrebbe compiuto un gesto di pietà.  E né mai l’aberrazione d’un sanguinario individuo, suo omologo di oggi. 

Mi viene in mente un “rigo” di Jean Rostand, biologo francese del secolo scorso: “se si uccide un uomo, si diventa assassino. Se si ammazzano centinaia di uomini, si vien chiamati conquistatori”. E i libri di storia son zeppi di personaggi che hanno inondato le strade del mondo con fiumi di sangue, e nonostante questo, forse proprio per questo, essi son celebrati come geni politici, conquistatori ed eroi!

Però nel cuore dell’uomo – scrive Ravasi – c’è anche un anelito di pace, di serenità. Ed è proprio questo respiro dell’anima a far capire quanto sia assurda la guerra, la devastazione, la morte, e quanto sia frutto di perversa invenzione, lo spreco immane delle risorse terrene nella corsa alle armi.

Torniamo, orsù, a stupirci dei mandorli in fiore di febbraio e a incoraggiare la brama d’una primavera ansiosa di ricominciare.

Vincenzo di Sabato

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